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Gerusalemme, al di qua e al di là del muro

Se non vuoi avere niente a che fare col tuo vicino è utile che la tua siepe sia sempre alta e ben curata. In mancanza di siepi, puoi erigere un muro. E se uno non ti basta, puoi farne molti; o quell’uno, estenderlo all’infinito. Capita che, a questo modo, persone possano vivere ignare uno dell’altro.
Dimenticavo, non è detto che il vicino sia contento della siepe. O del muro.

Fuor di metafora, parliamo di calcio. E di vicinato. Anche se difficilmente potremmo definire la rivalità in questione un derby. Siamo a Gerusalemme, capitale contestata d’Israele (una proclamazione non riconosciuta dalla comunità internazionale e condannata da risoluzioni ONU): quasi 900.000 abitanti e, ovviamente, molte squadre di calcio. Tra queste, due tra tutte: il Beitar Jerusalem FC e il Jabal Al-Mukaber. Stessa città, quartieri diversi, una manciata di chilometri a separarle.
Apparentemente vicine, ma appartenenti a due mondi diversi. Una al di qua, l’altra al di là del muro: una a Gerusalemme Ovest, l’altra a Gerusalemme Est. Il che le colloca non solo in due campionati diversi (la prima in quello Israeliano, la seconda in quello Cisgiordano), ma anche in due Confederazioni diverse, la UEFA per il Beitar, l’AFC (la confederazione Asiatica del Calcio) per il Jabal.

Il Beitar è, forse, tra le squadre israeliane, la più conosciuta. Sicuramente quella che da maggiori grattacapi alla polizia e che fa più notizia, soprattutto per i cori anti-arabi della parte più accesa della loro tifoseria (che le autorità negli ultimi anni stanno cercando di contenere) e per non aver mai accettato, fino a due calciatori Ceceni nel 2013, la presenza di giocatori musulmani all’interno della rosa.

Il Jabal al-Mukaber è, invece, la squadra più popolare della parte palestinese della città (forse, dopo la retrocessione nello scorso campionato, superata dall’Hilal Al-Quds, altra squadra di Gerusalemme Est che negli ultimi due, tre anni mantiene i vertici del massimo campionato cisgiordano) e porta nello stemma la sagoma dorata della Cupola della Roccia della spianata delle Moschee di Gerusalemme, il terzo sito più sacro del mondo islamico. In Israele il quartiere è temuto per il suo presunto Jabal Alestremismo e, sicuramente,  è stato teatro di numerose dimostrazioni, proteste e rivolte a sostegno della causa palestinese. Una riottosità forse anche dovuta alla particolare situazione del territorio di Jabal Al-Mukaber: diviso in due, alla maniera “Berlinese”, dalla barriera che divide Israele dalla Cisgiordania, la cosiddetta Linea Verde, e vicina al quartiere di Talpiot Est, uno dei sobborghi satelliti costruiti a partire dal 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, e considerati dalla comunità internazionale una occupazione illegale. Non diversa, del resto, è la situazione di Gerusalemme Est, che Israele occupa dallo stesso anno e che ha circondato, dopo la seconda intifada, con un’ennesima siepe grigia.

Beitar e Jabal dovrebbero essere acerrimi rivali. Uno scontro tra est e ovest, tra chi sta al di qua e chi sta al di là della siepe. Invece i media, israeliani e non, prediligono un altro derby, quello tra Beitar e il Bnei Sakhnin, squadra della città simbolo della resistenza palestinese e unica considerata araba all’interno della “Premier League” israeliana, una riproposizione calcistica del conflitto israelo-palestinese.

In questa rappresentazione il Jabal Al-Mukaber non trova spazio. Si trova dalla parte sbagliata del muro, quasi non esiste. Non c’è spazio per  il derby di Gerusalemme. Per il Jabal non c’è spazio neanche per giocare nella propria città, dovendo ripiegare sullo stadio Faisal Al Husseini di Al-Ram, a nord-est di Gerusalemme. Stesso discorso per l’Hilal Al-Quds. Blocchi stradali permettendo.

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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