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Zona K2

Dal 2005, direi giugno, nasce la mia passione per la montagna. Passione strettamente epistolare (due ciaspolate le mie prestazioni massime in quota, perchè gli skilift non contano) che prende il via con la lettura di Cometa sull’Annapurna, di Simone Moro, racconto strettamente autobiografico di una spedizione dalla quale solo lui fece ritorno. Poi la curiosità per Messner, Bonatti e pure l’abate Gorret, quello del Cervino. Anche il contemporaneo Barmasse e Kilian Jornet, che non è propriamente un alpinista ma qualche follia in montagna l’ha fatta.

Non salgo da nessuna parte, ma di pagine ne sfoglio: lo faccio perché le storie di queste persone sono davvero interessanti e quello che mi affascina, parola dopo parola, è quella ricerca di libertà e purezza che anima tutti questi eroi, generalmente miti e riservati nella quotidianità, capaci di sopportare fatiche inimmaginabili per raggiungere la vetta.
In estate, in inverno, con supporto, senza supporto.

Mi inchiodano al racconto le motivazioni che stanno dietro a queste imprese, lontane dalle logiche di visibilità social: queste persone davvero lo fanno per loro stessi, al massimo per i figli. Leggendoli, la loro sembra una spinta irrefrenabile, un bisogno fisico di evasione e radicamento allo stesso tempo: andare verso il cielo senza perdere il contatto con il terreno. Guardare in faccia non tanto la morte, quanto la verità. Senza sconti. Il bisogno di un mondo non artificiale.

Succede che in questi giorni ci fosse fermento sul K2 , con il doppio record della prima spedizione nepalese ad arrivare in vetta, per di più per la prima volta in inverno. Finalmente. Succede anche che sul K2 ci fosse lo spagnolo Sergi Mingote, alpinista esperto con esperienze politiche ed accademiche alle sue spalle: in un tratto di discesa è caduto ed a nulla sono serviti i pronti soccorsi degli amici e colleghi Dawa Sherpa e Tamara Lunger.

E’ la montagna.

Mi ha colpito la “normalità” (di cui anche la morte fa parte) delle vette himalayane, lontane dal trambusto pandemico di questi mesi e, se devo dirla tutta, mi ha colpito in positivo: sono felice e grato che questi grandi sognatori non si siano fermati ed abbiano inseguito le loro vette nonostante tutto. Li ringrazio di non aver ceduto al qualunquismo ed all’eccesso di semplificazione di questo periodo, seppur emergenziale, dove abbiamo rinunciato alla nostra natura umana, strettamente non essenziale, creando un pericoloso precedente discriminatorio e lasciatemelo dire, stupido.

In questo incubo buio, dove rinunciamo a vivere per paura di morire, il sacrificio di chi si è giocato tutto sul K2 non deve essere vano. Se ci fermiamo all’essenziale, perdiamo ciò che ci differenzia dalle altre specie. Ci sarà sempre qualcosa di più urgente di un K2  in inverno, forse si. Ma il K2 in inverno serve a dare coraggio, speranza ed anche un po’ di grinta a chi vive nell’urgenza, a chi in montagna non andrà mai.

E’ con un K2 invernale che possiamo riflettere, imparare a tener duro, guardare in faccia la realtà: abbiamo bisogno di qualcuno che lo faccia per noi, con il coraggio di Sergi ma anche dei Nepalesi e di tutti gli altri che sono su quelle pareti, affinchè scalare le montagne possa essere di nuovo e sempre stimolo, esempio, sogno e qualche volta realtà.

Grazie.

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Davide Podesta
Nell’agosto 1997 ho acceso la tv ed invece dei cartoni ho trovato la Classica di San Sebastian. Da quel giorno è stato solo ciclismo, pedalato, gareggiato e raccontato ma soprattutto vissuto. Per me non è metafora di vita, è l’essenza: un amore incondizionato e puro, critico e consapevole ma neppur minimamente deteriorabile. Se leggo la Gazzetta in un bar lascio aperta la pagina del ciclismo affinché qualcuno la legga, se la discussione finisce sull’argomento state certi che metterò il cuore sul tavolo. Trasgredisco solo per le Olimpiadi, sia estive che invernali e detesto ogni critica che non sia costruttiva, soprattutto quelle di chi non accetta il passare degli anni. Suoi e degli altri.
Davide Podesta

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