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Alpinismo e Grande Guerra 1- Una guerra arcaica e cavalleresca

La in pianura sono la massa e il peso che contano, qui in montagna l’individualità degli ufficiali e dei soldati.

Così Giuseppe Garrone, abile sciatore e amante della montagna, comandante alpino durante la Prima Guerra Mondiale e caduto sul Monte Grappa, sintetizzava la diversità tra la guerra di trincea e quella che in seguito venne definita Guerra Bianca. Una guerra d’alta quota combattuta tra il maggio del 1915 e l’ottobre del 1917 tra Italia e Impero Austro-Ungarico, che fu caratterizzata più che da una serie di battaglie, da una sequenza di incursioni e imprese alpinistiche e che vide la partecipazione di guide alpine e scalatori dell’epoca.

Perchè voglio parlare di questo aspetto della Grande Guerra? Perchè da un pò di tempo ho imparato ad amare e rispettare la montagna, per la sua maestosità, per i suoi panorami, per l’inaspettata bellezza delle sue vallate, che si schiudono all’improvviso dopo ore di cammino. Ho appreso in questi anni quanto il contatto con la natura abbia, almeno per me, la capacità di rischiarare la mente, spesso obnubilata dalle banali faccende lavorative quotidiane e cittadine e di restituirle equilibrio. Non è una banalità, vi giuro, la montagna l’ho sempre associata a un’oasi di pace che aiuta lo spirito ma anche il corpo  e chiunque abbia avuto la fortuna di mangiare una fumante polenta taragna ai formaggi di malga, in un rifugio d’alta quota, lo può ben comprendere.
Qualche anno fa ho avuto modo di visitare a quota 2950 sul massiccio della Marmolada le trincee della Grande Guerra e di visitare parte delle gallerie scavate nel ventre della montagna sul versante di punta Serauta. Lassù, in quello scenario maestoso, dove lo sguardo passa dal Sassolungo al Sass Pordoi, per arrivare al Monte Cristallo e ai denti aguzzi delle Tofane, in quella terrazza magnifica al centro delle Dolomiti si trova anche un piccolo museo e una cappella scavata nella roccia dagli alpini. La prima volta che ho visitato quei luoghi stentavo a credere ai miei occhi, un luogo tanto magnifico e imponente da togliere il fiato, ma al tempo stesso lontano da tutto il resto, a 3000 metri di quota, ai confini del mondo, teatro di battaglie, dolori, sofferenze, privazioni, morte.

Ho provato ad immaginare cosa potesse significare avere vent’anni e dover lottare per sopravvivere, prima ancora che combattere in un ambiente così grandioso ma allo stesso tempo estremo e inospitale. Lontano dagli inutili e devastanti assalti delle trincee del Carso o della Marna, lontano dal fango e dall’odore di morte e putrefazione dei grandi scenari dei fronti della Prima Guerra Mondiale a 3000 metri o anche più, racchiusi in caverne scavate nella nuda roccia oppure in baracche di legno stipate e pericolanti su cenge esposte, a difendere la cima di un monte oppure un passo. Senza contare l’ immane fatica nel portare in quota un pezzo di mitragliatrice o cannone, il rischio di valanghe, di morire di freddo, di scomparire per sempre nel calmo mare di ghiaccio. Mentre sul fronte occidentale e sul Carso si combattè una logorante guerra di trincea, dove il numero delle vittime fu direttamente proporzionale all’evoluzione tecnologica dei mezzi di morte, in alta montagna si combattè una guerra arcaica, fatta di azioni audaci, al limite del cavalleresco, di soldati sherpa, in cui la fatica, l’impresa alpinistica e lo spirito di sopravvivenza superarono ampiamente il puro dato militare. Per fare un esempio di ciò di cui sto parlando, le Dolomiti di Sesto furono teatro di combattimenti corpo a corpo in gallerie scavate nella neve, nel ventre della montagna, in spazi angusti, al buio, come topi in trappola. Tutto ciò prese il nome di Guerra dei trogloditi: una guerra ancestrale, fatta di caverne, cunicoli e picchi difesi in condizioni sovrumane.

Se tutto questo sembra già ai confini della logica, l’episodio che mi ha sempre colpito di più della cosiddetta Guerra Bianca è la storia del cannone 149G. Soprannominato l’Ippopotamo dagli alpini che dovettero trasportarlo fin in cima a Cresta Croce, da quasi un secolo è incastonato nel magnifico scenario del gruppo dell’Adamello-Presanella: un forestiero, che a distanza di un secolo dagli avvenimenti che lo videro protagonista, fa ormai parte del panorama. La storia del viaggio di quel bestione di ghisa da più di 60 quintali da l’idea di come ingegnosità e l’assurdità che solo la guerra può far emergere, spesso vadano a braccetto e di come i soldati si siano trasformati per l’occasione in portatori, simili agli antichi schiavi egizi a cui dobbiamo le piramidi. Un viaggio lungo quasi tre mesi tra il febbraio 1916 quando partì da Ponte di Legno e la fine di aprile dello stesso anno quando fu finalmente issato a Cresta Croce, a oltre 3200 metri di quota. Quei due mesi di trasporto, videro l’utilizzo della forza motrice animale, prima cavalli e poi uomini. Sessanta alpini legati con corde componevano la bizzarra processione, anticipati da alcuni minatori e genieri incaricati di scavare la neve fresca, accumulatasi a metri lungo il tragitto prestabilito. Una fatica immane, assurda, alleviata solo parzialmente dal calore dell’alcool, compagno necessario di chi è costretto dagli eventi a condizioni così estreme. Oltre millecinquecento metri di dislivello per issare un pezzo d’artiglieria con un tiro da oltre 10km in uno dei comprensori più belli delle Alpi.

Se penso che a volte quando torno da una camminata con mille metri di dislivello mi sembra di aver scalato l’Everest e cado in stati catatonici, convinto di aver compiuto una grande traversata in cresta degna di Messner e anelando una cena pantagruelica a base di carne e formaggi (il tutto innaffiato da ottimo vino rosso o birra), stento a comprendere come l’uomo possa essere capace di fatiche così immani e dolorose.
Spesso, da semplice camminatore della domenica, mi è capitato di scorgere in parete, su una qualsiasi delle più famose cime delle Dolomiti, molti scalatori, piccoli puntini colorati in un mare di roccia scintillante e cangiante per via del riflesso del sole. Provate ad immaginare cosa potesse significare dover scalare quelle cime difficili, con l’attrezzatura di un secolo fa, con zaini pesanti più di venti kg e magari sotto il fuoco dell’artiglieria nemica. Le condizioni estreme del campo di battaglia riducevano oltretutto all’estate la possibilità di sferrare attacchi alle postazioni nemiche. Senza contare che i due inverni nei quali la guerra infuriò sulle Alpi tra il 1915 e il 1917, furono tra i più freddi del secolo scorso, con accumuli nevosi superiori ai 10 metri e temperature di oltre 30 gradi sottozero. Interi accampamenti furono sepolti per sempre da slavine gigantesche come quella che il 13 aprile 1916 uccise in un sol colpo trecento soldati austriaci accampati in baracche a Gran Poz ai piedi della Marmolada. La maggior parte dei soldati impiegati sul fronte alpino, dall’Adamello alle Dolomiti, morirono per slavine, assideramenti, frane, malattie. La natura in questo scenario fece più vittime del fuoco delle azioni militari.

Questo dato mi ha sempre fatto riflettere sull’insensatezza di una guerra d’alta quota, su quante giovani vite siano state spezzate per soddisfare interessi altrui a causa dell’idiozia delle classi dirigenti dell’epoca – idiozia che possiamo riscontrare ancora oggi, anche se le guerre al giorno d’oggi si combattono con mezzi finanziari, almeno quelle che contano davvero. Inoltre, tatticamente, è ormai assodato da parecchi anni che il controllo di molte delle remote cime alpine non avrebbe certo comportato vantaggi logistici, tali da giustificare un accanimento così spaventoso, volto alla conquista di svariati passi e addirittura cenge o pianori di difficile difesa.

…continua

In Memoria Concept Trailer di Hive Division.


BIBLIOGRAFIA

National Geographic Italia, numero di marzo 2014
Alpinisti in guerra di Alessandro Pastore (www.cafyd.com)
Lassù con l’ippopotamo, il cannone delle nevi – Archivio Storico Corriere.it
Sulle vette della patria - Stefano Morosini ed. Franco Angeli
Alpinismo e storia d’Italia - Alessandro Pastore  ed. Il Mulino
Teatri di guerra sulle Dolomiti – Mauro Vianelli, Giovanni Cenacchi  ed. Oscar Storia Mondadori

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Non possiedo le conoscenze sportive a 360° dei miei “compagni di merende” ma mi difendo bene nel tiro alla fune e nel gioco del fazzoletto. Forse è per questo che mi hanno voluto nella creazione di questo blog, o forse, più semplicemente, quella sera erano ubriachi di birra artigianale. Ho scoperto alle ultime olimpiadi il beach volley femminile e ciò mi ha fatto riflettere, portandomi a considerare gli altri sport un contorno o poco più. Ho il Genoa nel sangue, solo che a volte ne ho troppo e finisce che mi sento male.

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