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L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra

Il 6 aprile 2017 è ricorso il 25-esimo anniversario dell’assedio di Sarajevo. Assedio che durò fino al 1995 risultando il più lungo della storia moderna. Come si arrivò a una tale barbarie? E cosa c’entra il calcio? Nel momento in cui la Jugoslavia visse la sua violentissima implosione ci fu un rigore che sembrò segnarne il destino, il cui peso ancora oggi non abbandona chi sbagliò quel rigore fatale: Faruk Hadzibegic. Ne Abbiamo parlato con Gigi Riva, autore del libro L’ultimo rigore di Faruk (Sellerio, 2016) che in Francia ha vinto il “Prix Etranger Sport et Littérature” assegnato al miglior volume scritto in lingua straniera e pubblicato in Francia nel 2016.

Come nasce, a distanza di tanti anni dai fatti narrati, l’idea di questo libro?
Nel 1994 mi trovavo in Francia per la presentazione di un libro che avevo scritto sulla tragedia jugoslava intitolato J’accuse l’Onu, uscito poi in Italia col titolo L’Onu è morta a Sarajevo. In una serata tenuta a Strasburgo un signore mi si avvicinò per farsi firmare una copia del libro. Mi disse di essere Faruk Hadzibegic, presentandosi come l’uomo che a causa di un rigore sbagliato aveva distrutto la Jugoslavia. In quel periodo stava finendo la carriera nel Sochaux. Mi raccontò che la storia di quel rigore sbagliato lo stava tormentando. Era una storia da raccontare. Tre anni fa durante una cena a Roma con un editore francese, anche lui appassionato di Balcani è riemersa la storia di Faruk e di lì è nata l’idea di questo libro. Ho rintracciato Faruk, che si ricordava del nostro incontro di vent’anni prima. Non era più convinto di aver demolito la Jugoslavia, ma la fama del suo rigore sbagliato era ancora ben presente nella mente di molti ex jugoslavi, poiché spesso quando lo riconoscono gli viene rivolta la fatidica frase “ah se non avesse sbagliato quel rigore…”. In un certo qual modo è comunque diventato un capro espiatorio. Abbiamo fatto lunghissime sedute per ricostruire tutti gli eventi citati nel libro, ricontattando anche quindici giocatori che componevano la nazionale che partecipò ad Italia 90.

Come spieghi esaustivamente nel libro, prima dello scoppio della guerra, le curve degli stadi vengono via via egemonizzate dalla malavita diventando luogo privilegiato per la creazione di gruppi paramilitari. Ne è l’esempio principale la figura di Arkan. Ai tempi della dittatura di Tito esisteva una connessione tra sport e politica?
Una commistione tra sport e politica esisteva in Jugoslavia già prima dell’egemonizzazione delle curve da stadio da parte dei partiti etnici. Le squadre di calcio erano già rappresentazione di gruppi di potere. Il Partizan nasce nel 1945 come squadra dell’esercito, la Stella Rossa come squadra della polizia. La Dinamo Zagabria ha sempre rappresentato il simbolo della croaticità ed è pure la squadra di cui era tifoso il presidente Tudjman. L’Hajduk Spalato era la squadra per cui tifava il Maresciallo Tito. Nel periodo immediatamente precedente la guerra, quando le varie parti in causa prendono posizione spingendo per la disgregazione della Jugoslavia, avviene un meccanismo perverso per cui le curve degli stadi vengono trasformate in breve tempo in formazioni paramilitari. Prima esistevano gruppi di facinorosi, poi, dal vandalismo da stadio, le curve vengono egemonizzate ed utilizzate dai partiti etnici. L’emblema di questo mutamento è rappresentato dagli ultras della Dinamo Zagabria, sostenitori dell’indipendenza da Belgrado, e da quelli della Stella Rossa, capeggiati da Arkan. Alcune tifoserie nel corso dei decenni hanno visto una radicalizzazione verso posizioni estremiste. Per citare un fatto recente basta ricordare la svastica fatta apparire sul terreno di gioco da parte dei tifosi dell’Hajduk prima della partita Croazia-Italia del giugno 2015.

Fuori dallo stadio Maksimir di Zagabria c’è una targa che recita: “ai sostenitori della squadra che su questo terreno iniziarono la guerra contro la Serbia”. Mi riferisco alla famigerata partita Dinamo Zagabria – Stella Rossa del 13 maggio 1990. E’ sostenibile l’ipotesi che si sia trattato del vero e proprio primo atto di guerra?
Sì, i fatti del Maksimir rappresentano il prologo della guerra. Si tratta delle prove generali del conflitto che di lì a poco avrebbe spazzato via la Jugoslavia. Il ruolo di Arkan è fondamentale in questo contesto perché utilizza le sue milizie rappresentate dai tifosi della Stella Rossa con lo scopo di saggiare le sue forze e quelle del nemico. I tifosi della Dinamo in quell’occasione non si fanno trovare impreparati, perché anche loro da anni covavano odi e risentimenti verso il centralismo di Belgrado. La data di quella partita d’altronde non è casuale. Una settimana prima si erano tenute in Croazia le prime elezioni libere che avevano visto l’affermazione del partito di Tudjman. Quella partita diventa in tal maniera un pretesto, un simbolo. Ormai la guerra era stata decisa, tutto era in movimento a quel punto. Chiaramente i motivi di quella guerra non avevano a che vedere con il calcio: Slovenia e Croazia si sentivano gravate dal peso di aver sostenuto per anni la produttività del paese, inoltre i croati avevano da sempre mal digerito la centralità di Belgrado. Il calcio però serve in questo caso come veicolo perché ha grande eco e funge da cassa di risonanza.

I bosniaci, in virtù del multiculturalismo in cui aveva prosperato Sarajevo, erano convinti di essere immuni al batterio della guerra che si stava diffondendo. Lo stesso Faruk fatica in un primo momento a capire la gravità della situazione. Per quale motivo secondo te?
Faruk come altri bosniaci sarajevesi era convinto che la commistione etnica e culturale sarebbe stata un collante in grado di tenerli lontani dal conflitto. A Sarajevo, da sempre, le differenze avevano rappresentato un valore: dopo il 1945 Sarajevo era stata la città con più matrimoni misti tra i vari gruppi etnici e in cui tutti partecipavano alle varie festività religiose che fossero musulmane, cattoliche o ortodosse. Inoltre è da tener presente che Sarajevo viveva ancora in quegli anni l’onda lunga del decennio d’oro degli anni ‘80 che l’aveva vista protagonista dell’Olimpiade invernale del 1984 e, a detta di tutti, una delle meglio organizzate in assoluto. Nel 1985 la squadra in cui militava Faruk, l’FK Sarajevo aveva conquistato il titolo di campione di Jugoslavia. Kusturica iniziava a fare cinema proprio in quegli anni. L’idea comune era che questo decennio prodigioso avrebbe contribuito a mettere al riparo Sarajevo dagli odi etnici e politici che montavano in quel periodo nelle altre Repubbliche. Si può dire che storicamente Sarajevo abbia sempre avuto il genius loci che contempla l’accettazione di tutti. Proprio questa sua ricchezza di multi-culturalità ne ha fatto un simbolo da distruggere e per questo la guerra lì è stata ancora peggio che altrove.

La Jugoslavia raggiunge il suo apice sportivo proprio nel momento della disgregazione tra l’estate del 1990 e la fine del 1991. La nazionale di basket conquista Mondiale e Campionato Europeo, la Stella Rossa vince prima la Coppa dei Campioni e successivamente la Coppa Intercontinentale. La nazionale che si presenta a Italia 90, parafrasando una frase dell’allenatore Osim, può fregiarsi di avere in rosa ben sei Baggio. Al netto della sfortuna e degli errori arbitrali della partita contro l’Argentina, quella squadra avrebbe potuto puntare alla vittoria finale?
Da un punto di vista strettamente tecnico, la Jugoslavia era la squadra più dotata. Ricordiamoci che quel mondiale fu vinto da una delle peggiori nazionali tedesche della storia. La stessa Argentina, che avrebbe poi eliminato l’Italia, con la Jugoslavia avrebbe meritato di perdere. Il problema più grande della formazione dei Plavi era che la squadra non poteva giocare con la serenità necessaria ad affrontare un evento del genere a causa di quello che stava succedendo in patria. Ogni sera il tecnico Ivica Osim riceveva telefonate dai rappresentanti politici delle varie Repubbliche che lo incalzavano per far giocare questo o quel giocatore. Se ci fossero state le giuste condizioni per affrontare serenamente il mondiale la Jugoslavia avrebbe potuto tranquillamente giocarsi la vittoria finale. Senza la situazione esplosiva che si stava delineando nel paese avrebbe anche potuto contare sul talento di Boban, che invece saltò il mondiale per la famosa squalifica. In rosa c’erano comunque elementi di valore assoluto quali Savicevic, Stojkovic, Susic, Prosinecki, Vujovic, Katanec, Pancev e Jozic. Dal punto di vista del talento ne aveva da vendere. La frase di Osim “io di Baggio ne ho sei” era veritiera. Certo sarebbe servito la giusta amalgama che purtroppo non poté esserci. E come avrebbe potuto esserci, se l’ultima partita prima del ritiro mondiale, l’amichevole giocata a Zagabria contro l’Olanda, vide il pubblico croato tifare contro la propria nazionale? I giocatori dopo quell’esperienza partirono per il mondiale con l’idea – fondata – che il paese era ormai irrimediabilmente diviso. Se da una parte questa contrapposizione e la lontananza da casa fece da collante, dall’altra caricò oltremodo di responsabilità e preoccupazione i giocatori non permettendogli di vivere quel particolare evento con la giusta dose di calma.

Il 25 marzo 1992 Faruk decide di abbandonare da capitano la nazionale, di fronte alle sofferenze del popolo bosniaco. Ma non si limita a ritirarsi, infatti compiendo un atto politico decide di sciogliere la squadra ponendo così fine a una storia lunga 72 anni. E’ l’aver preso coscienza che ciò in cui ha creduto non esiste più che non gli permette di continuare?
La figura di Faruk evolve nel corso degli eventi perché acquisisce consapevolezza politica. L’uomo cresciuto nel mito della maglia dei Plavi e dello sport come fattore di unione e inclusione muta radicalmente nel momento in cui iniziano a bombardare Sarajevo, la sua città. Faruk si rende conto che non è più possibile fare la cosa che ama di più, c’è un momento in cui lo sport si deve far da parte di fronte alla tragedia che si sta consumando. Tra il Mondiale del 1990 e l’ultima partita della nazionale Jugoslava nel 1992 passano due anni, nel frattempo lui diventa capitano e come tale si sente di rappresentare tutto il paese. Sente addosso la responsabilità del capitano, simbolo di un paese in cui lui per primo ha creduto. Il grande amore che nutre per la patria multiculturale in cui ha sempre creduto si tramuta in amore per la sua città, bombardata e messa sotto assedio. E’ un atto d’amore per Sarajevo che lo costringe ad abbandonare, o per meglio dire a sciogliere, la nazionale. Ed un estremo gesto d’amore è anche quello che tributa ai suoi ex compagni, quando, in partenza per l’europeo del 1992 da cui verranno estromessi a tavolino, incontra la squadra in partenza per la Svezia all’aeroporto internazionale di Zurigo. Sente ancora il peso della fascia di capitano ma non può più seguire i suoi ex compagni rappresentanti di una patria che non esiste più.

credit image: Mark Leech (GettyImages)

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Non possiedo le conoscenze sportive a 360° dei miei “compagni di merende” ma mi difendo bene nel tiro alla fune e nel gioco del fazzoletto. Forse è per questo che mi hanno voluto nella creazione di questo blog, o forse, più semplicemente, quella sera erano ubriachi di birra artigianale. Ho scoperto alle ultime olimpiadi il beach volley femminile e ciò mi ha fatto riflettere, portandomi a considerare gli altri sport un contorno o poco più. Ho il Genoa nel sangue, solo che a volte ne ho troppo e finisce che mi sento male.

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