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Federico Buffa racconta: le Olimpiadi del 1936

Ho la gola secca, il cuore batte veloce e sono emozionato. La penna e il blocco degli appunti sono pronti, il computer è acceso e le cuffie nelle orecchie sono al giusto volume. Compongo il numero e immagino. Immagino, per qualche secondo, di trovarmi a Berlino nei primi quindici giorni d’agosto del 1936. Ci sono le Olimpiadi, un evento planetario, mondiale. Gli occhi di tutti sono puntati sui campioni in gara, ma anche sui gerarchi nazisti seduti sulle tribune dell’immenso Olympiastadion di Berlino. Leni Riefenstahl, famosa regista dell’epoca, gira in quei giorni “Olympia”, documentario sui giochi Olimpici, che diventa uno dei documenti più importanti riguardo alla manifestazione berlinese. Federico Buffa, oggi, porta nei teatri d’Italia proprio quelle Olimpiadi e, nel frattempo, risponde al telefono.

Come è nata l’idea di uno spettacolo teatrale?
«L’idea è nata da Emilio Russo e Caterina Spadaro del Teatro Menotti di Milano. Un giorno mi chiamano e mi dicono “Cosa ti piacerebbe fare?” e io rispondo su due piedi “Le Olimpiadi del 1936”. Sapevo che sarebbe stato un evento dal quale si poteva tirare fuori molto materiale, anche troppo e, grazie alla scrittura di Paolo Frusca e Jvan Sica (insieme al sopracitato Emilio Russo), di materiale effettivamente ne abbiamo messo su carta parecchio».

Perché le Olimpiadi del 1936?
«Perché le storie dello sport sono storie di uomini. Sono storie che scorrono assieme al tempo dell’umanità, seguono i cambiamenti e i passaggi delle epoche e a volte li superano. E’ capitato a Berlino nel 1936 quando Hitler e Goebbels volevano trasformare le loro Olimpiadi, o quelle che credevano fossero le “loro”, nell’apoteosi della razza ariana e del “nuovo corso”. E invece quelle Olimpiadi costruirono i simboli più luminosi dell’uguaglianza: Jesse Owens, di medaglie ne vinse quattro, due record mondiali e un record olimpico. Era nero. Due atleti giapponesi arrivarono primo e terzo nella maratona. Alla premiazione, mentre ascoltavano l’inno, la loro testa era china. Non erano giapponesi, erano coreani. Il vincitore Sohn Kee-Chung, 52 anni dopo, portava dentro lo stadio di Seul la fiamma olimpica del 1988 indossando come una seconda pelle la maglia della sua nazione, la Corea. Nello spettacolo racconto queste due storie per ragioni di tempistiche, ma avrei potuto raccontare di atleti come Johnson, Albritton, Trebisonda Valla e l’Italia di Pozzo. Inoltre le Olimpiadi del 1936 sono state un spartiacque per la storia dello sport, che passa da uno stato all’altro perdendo quasi la sua verginità: uno stadio da centomila posti mai visto prima, una macchina organizzativa tanto impeccabile quanto imponente anche e soprattutto per fini di regime e propaganda, un villaggio olimpico costituito da bungalow fatti arrivare direttamente dalla California come a dire “ce li hanno laggiù, ce li abbiamo anche noi”. Insomma una kermesse sportiva che cambiò per sempre la storia dello sport».

Nello spettacolo vesti i panni di un personaggio tragico?
«Vero. Il mio personaggio è Wolfgang Furstner, un uomo quarantenne, comandante del villaggio olimpico che aveva i nonni ebrei. Per tale motivo Furstner si suicidò poco dopo i giochi, poiché non riusciva a sopportare il peso di una così forte persecuzione razziale nei suoi confronti. Wolfgang è un ruolo tragico, drammatico. E’ un uomo sconfitto dagli eventi».

Antisemitismo, razzismo, boicottaggi: le Olimpiadi di Berlino furono anche questo?
«Si. E nello spettacolo le prime due componenti vengono fuori in maniera preponderante poiché la storia dello sport si fonde con la storia degli uomini. Del boicottaggio spagnolo invece non riesco a parlare all’interno dello spettacolo non per ragioni di tematica, ma per motivi di tempo. Ogni sera cerco di variare alcune piccole parti, alcuni dettagli anche in base a quello che leggo o sento. Il boicottaggio spagnolo e le Olimpiadi Popolari di Barcellona, che non furono mai disputate a causa della Guerra Civile, meriterebbero sicuramente una parentesi all’interno dello spettacolo. Anche se credo che farei ammattire i coautori. Ma mai dire mai, nella vita tutto può accadere».

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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