Texas-Western_1966

Glory Road e la finale NCAA del ’66

Nella notte tra il 6 e il 7 Aprile i Duke Blue Devils hanno vinto il loro quinto titolo NCAA ad Indianapolis contro i Wisconsin Badgers. Coach K si è confermato uno dei migliori di sempre, entrando di diritto nella storia del basket collegiale americano. In squadra, sette giocatori su undici erano di colore: niente di strano per una società multirazziale come quella americana e per uno sport come il basket dove la percentuale degli afroamericani che gioca in NBA è pari all’80% circa. Dire come si è arrivati a queste percentuali e perché richiederebbe la stesura di un romanzo, ma possiamo raccontare, grazie ad un film e al contributo di Flavio Tranquillo (che abbiamo intervistato al volo), quello che successe nella finale NCAA del 1966. Forse aiuterà a capire meglio, dato che quella finale fu sicuramente uno spartiacque tra il “basket giocato solo dai bianchi e il basket dopo il 1966”.

Tutto parte dopo la visione di un film basato sulla storia vera dei Texas Western Miners intitolato Glory Road – Vincere cambia tutto”. Lo stesso Flavio Tranquillo nel suo libro “Altro tiro, altro giro, altro regalo” scrive: “Posso vedere “La vita è bella” e “Ghost” senza battere ciglio ma la millesima rivisitazione di “Colpo Vincente” o “Glory Road” mette a dura prova la mia scorta di Kleenex”. Insomma non voglio spoilerare nulla ma lo devo fare: siamo nel 1966, un giovane allenatore, Don Haskins, insegna pallacanestro ad un gruppo di ragazzine al liceo. Un giorno gli venne proposto di allenare i Texas Western Miners, una squadra che era sull’orlo del baratro, sia a livello agonistico che a livello economico. Don così decide di investire di tasca propria e va alla ricerca di giovani talenti sparsi negli Stati Uniti: decide di reclutare alcuni giocatori di colore anche se è a conoscenza che la scelta non sarà ben vista dalla mentalità razzista di quegli anni. Così facendo Haskins forma la sua squadra, ed inizia il lavoro più complicato: insegnare ai suoi giocatori, dotati di grande fisicità ma scarsi tecnicamente, i fondamentali del gioco. In poco tempo riesce, ad amalgamare 7 ragazzi di colore e 5 bianchi, e a costruire un team unito e competitivo che arriverà, vittoria dopo vittoria, al trionfo in finale dove giocheranno, per scelta del coach, solo i giocatori di colore.

«La storia nel film è ovviamente un po’ romanzata e semplificata – commenta Flavio Tranquillo  – i Texas Western Miners non avevano certamente il background cestistico di squadre più blasonate come Kentucky.  L’allenatore, Don Haskins, decide di puntare su questi ragazzi di colore in un periodo in cui nel sud degli USA non erano presenti nelle squadre universitarie giocatori afroamericani, non tanto per vincere la battaglia pregiudiziale e razziale, ma per vincere il titolo perché vede in loro splendidi atleti e cestisti prima di ogni altra cosa. E’ una battaglia cestistica che poi diventa battaglia sociale e razziale: i giocatori neri superano il pregiudizio di essere considerati giocatori indisciplinati, disordinati e grezzi nel gioco. Questo è il focus della storia. E’ pallacanestro che si espande poi a vita di comunità, di città, di nazione in un delicato periodo della storia della segregazione razziale negli Stati Uniti».
La vicenda si svolge negli anni di maggiore battaglia socio-politica per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti: nel 1964 venne approvato il Civil Rights Act e l’anno successivo il Voting Rights Act.

Ad oggi lo spartiacque tracciato da Don Haskins e dalle sue scelte sembra aver dato buoni frutti: in NBA circa l’80% dei giocatori è di origine afroamericana anche se non mancano casi di perpetrato razzismo. Nel 2010 infatti si prova a creare un campionato di basket a 12 squadre, senza giocatori afroamericani o nati all’estero: è la All-American Basket Alliance che prende vita nel profondo Sud degli Stati Uniti per consentire ai bianchi di giocare a pallacanestro in maniera pulita, ovvero solo fra di loro. Sono due i motivi che giustificano la creazione di una Lega di basket senza neri e stranieri. Primo: nella Nba i giocatori afroamericani sono oramai l’80 per cento, a livello di college le percentuali sono simili, e ciò significa che i bianchi vengono progressivamente emarginati da squadre e allenatori trovandosi nella necessità di avere un campionato nel quale poter giocare. Secondo: nella Nba dominata dagli afroamericani si gioca il basket di strada disseminato di mosse irregolari come le spinte a chi sta fermo, i colpi molto duri e perfino i giocatori che si aggrappano ai testicoli dell’avversario senza che gli arbitri intervengano. La lega non riuscirà mai a fare movimento, per fortuna, restando nel più totale anonimato. Di recente, poi, avevamo scritto anche del caso Donald Sterling: insomma il 1966 è superato e lontano, o forse no, forse è terribilmente attuale.

Il film Glory Road descrive una storia vera. Non ha i toni drammatici di un Invictus o i tocchi di classe di un Toro Scatenato, ma è piacevole. Certo a volte un pò semplicistico e retorico, ma comunque un discreto film sportivo. E non solo.

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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