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Like Kobe

L’iconografia di uno dei migliori cestisti della storia del basket, può evolvere e forse mutare quando la sua fisicità e la storia che la contiene vengono messe al servizio dell’unica forma espressiva ancora capace, in questi tempi, di veicolare sogni e speranze, di sublimare la fatica, spiritualizzare la sofferenza, evocare trionfi.

Una comunicazione tutt’altro che pura, quella dell’ Animazione che pizzica con il Disegno ogni corda più recondita dell’animo umano, quelle che possono trasformarti da uomo ad eroe, o viceversa.

Ed è per questo che la lettera di addio al basket di Kobe sembrava non aspettasse altro che emergere da uno schermo grazie al viso del piccolo Kobe tratteggiato su carboncino dal creatore di mezzo cinema Disney, tanto per riassumere la carriera di Glen Keane, autore, insieme al signor Bryant, del cortometraggio animato che ha trionfato agli ultimi Academy Awards.

Niente stop motion, solo stop-and-go e bronci che prendono vita dall’anima della grafite, l’unico strumento ancora capace di restituire su carta il contrasto tra luci ed ombre, tra fallimenti e gloria, l’estasi e l’addio, luci e ombre che diventano colore vibrante, anzi, quei colori cari a Kobe, che solo il tratto materico di un ‘vecchio’ animatore poteva far fluttuare sullo schermo.

In quei pochi ma lunghissimi minuti di “Dear basketball”, di amore ce ne è abbastanza per nutrire e ispirare tutti i nostri sogni lanciati in aria da un Campione che si lascia disegnare in quel modo affinché uguale a qualsiasi altro bimbo possa insegnarci a perseguire la grandezza, l’unica auspicabile da tutti, quella della volontà.

Eppure c’è qualcuno che da distanze meno siderali di Los Angeles, ha voluto raccontare per immagini quella stessa storia di fatica, perseveranza e tenacia, e racchiuderla tra pagine che incredibilmente diventano più accecanti di uno schermo, nonostante il supporto cartaceo sia apparentemente più opaco del fulgore della pellicola.

Se è vero che il primo senso ad essere attivato quando prendi in mano un libro è il tatto, quello che principalmente ci tiene attaccati alla vita fin dai suoi primi istanti, non è forse un caso che i polpastrelli – vitali nel basket, guarda un po’ – siano continuamente sollecitati dal primo momento in cui sfiori quella “morbida”copertina rigida, che può sembrare un ossimoro ma non lo è visto che la maneggiamo con la stessa tenera curiosità che avremmo avuto da bambini, quando il contatto col mondo passava esclusivamente per le nostre mani.

E mentre le dita non troppo cresciute, scorrono bramose tra le pagine spesse alla ricerca di una bellissima storia raccontata per immagini, si imbattono subito in una dichiarazione d’intenti celebrata su un giallo accecante e profumato di “ciclostile”, sì, profumato come solo il parquet, il sudore della vittoria e certi libri sanno esserlo.

“Cominciamo dalla fine. Perché un finale così non si era mai visto e perché – a pensarci bene – questo epilogo somiglia terribilmente all’inizio della storia”

E la meraviglia di questa storia, (già, perché ad ogni storia ne è sottesa un’altra ancora più bella) è che quando Francesco Poroli ha pensato di rivelare le prodezze del Mamba ai suoi due figli, non poteva sapere che contemporaneamente, dall’altra parte del globo, anche qualcun altro stava immaginando come mettere su carta l’ossessione e la resilienza di quel ragazzo che amava tanto il giallo e il viola.

Poi succede che la fine diventa davvero l’inizio di una nuova avventura per tutti, per il Campione dell’ NBA che esattamente due anni dopo la sua ultima partita giocata a Los Angeles si ritrova nella stessa città a stringere forte un Oscar, (togliendosi un bel po’ di anelli dalle mani per non ferirsi), e anche un po’ per Francesco, che di dediche ai figli pure ne sa qualcosa, che l’Academy Award glielo hanno dato direttamente loro.

Non ci sono numeri a piè di pagina in “Like Kobe”, forse ve ne erano già tanti disseminati tra le pagine, i numeri di una carriera pazzesca, vero, ma che sarebbe difficile portare in vita se non avessimo davanti certe immagini, quelle concepite e immaginate da Francesco per far sì che il corpo-mente di Kobe si imprima il più possibile nelle menti dei bambini che siamo stati e che saremo sempre, quelli che imparano a crescere dai disegni, la prima forma di conoscenza che abbiamo.

Qui le pagine non si possono contare, si contano solo i giorni, i punti, perchè certe storie non si possono contenere entro un inizio e una fine, e chi dà vita a certe ‘figure’ sa bene che per rendersi immortali e veicolare sentimenti oltre la fisicità, devono stagliarsi per bene dalle caverne di Platone e venirci a cercare.

Mentre vuol spiegare ai suoi figli perché è importante diventare il “Kobe Bryant” di se stessi, papà Francesco ci investe con secchiate di pittura fresca nei toni del giallo e del viola, facendoci desiderare insieme al Mamba che una nuova illustrazione e (una nuova secchiata) segua immediatamente la precedente e renda anche noi un po’ “Mr Clutch, -Signor l’ultimo tiro me lo prendo io”, immersi come siamo in un bellissimo gioco di immedesimazione, in cui tanti tiri vanno dentro, ma anche tanti fuori, nella sinfonia di colori in cui non è solo una sagoma gioiosamente illustrata a farci rialzare, ma l’ “ossessione”, la “passione” e la “resilienza” che evoca.

Tutta roba difficile da capire se hai 5 e 8 anni, tanto quanto se ne hai 34 e arriva spesso qualcuno o qualcosa a lanciarti addosso secchiate di nero per spegnere o, peggio, ferire la nostra immaginazione.

“Ma noi siamo gente che al cinismo non crede per principio”, scrive Francesco tra le righe, (commentando le varie ipotesi formulate sulla scelta di Kobe del 24 ), ed è con queste preziose parole che ci rende vicini e uguali a Riccardo e Beatrice, con la loro voglia di scoprire storie belle e la sontuosa ingenuità di non credere ancora che ci sia sempre qualche guastafeste, qualcuno o qualcosa in grado di scalfire tutto ciò che di bello esiste dentro e fuori di noi, come l’esempio dato da un bel ragazzone di Philadelphia che ha sfidato tutto ciò che poteva sfidare, tempo, campioni, infortuni e “incidenti” di percorso.

Ai suoi bambini basterà avere tutta la vita davanti per accorgersi di quanto sia bello diventare il ‘Kobe Bryant’ di se stessi, noi, che magari a volte ce ne dimentichiamo, avevamo bisogno di queste immagini e di questi colori affinchè sospesi tra forme tondeggianti e tratti decisi possiamo provare ancora tutto quello che provano Riccardo e Beatrice, e sognare, un giorno, di poter mettere in pratica quella frase che campeggia alla fine, (ahimè-la fine!), sul penultimo foglio spesso e intriso di gioia:

“As a parent you can’t just talk the talk, you’ ve got to walk the walk”

Grazie, Francesco Poroli, per ogni illustrazione con cui hai elevato i nostri sogni facendoci desiderare di essere tutti un po’ padri e un po’ figli, perché se “un finale così non si era mai visto”, tu ci hai permesso di immaginarlo.

 

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Elena Catozzi

Elena Catozzi

Vive a Roma, dove ha studiato Storia e Critica del Cinema, dedicando le sue ricerche all’opera di Vittorio De Sica e Roberto Rossellini. Tifosa di calcio e basket, è affascinata dallo sport in generale, di cui ama soprattutto le storie umane che porta con sé. Autrice, assieme a Federico Buffa, del libro "Muhammad Ali. Un uomo decisivo per uomini decisivi".
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