Playground e l’altra NBA

Mi è capitato una volta sola di poter giocare in un playground. A New York ne ho visti parecchi, ma faceva freddo e nevicava: nessuno stava giocando. A Los Angeles, invece, al Venice Beach Court mi sono tolto le Birkenstock istintivamente e, a piedi scalzi, ho chiesto se potevo fare qualche tiro. I ragazzi hanno detto si e io mi sono letteralmente scartavetrato i piedi. Però mi sono divertito (non male anche la tecnica). In questo playground, forse uno dei più famosi degli States, e in milioni di altri campi sparsi per il paese, giocano milioni di persone. Pochi sono arrivati in NBA, alcuni avrebbero potuto, ma la storia è andata diversamente. Questo vuole essere un pezzo che omaggia il basket NBA, anche a nome di chi non ce l’ha fatta.

Ogni anno ci sono campioni che ritornano, altri che devono confermarsi, altri ancora che debutteranno e poi c’è semplicemente chi inizia una nuova stagione. Lebron James torna nella sua Cleveland, Parker e soci sono chiamati a ripetere la grande annata passata, i rookie proveranno a mettersi in mostra. Poi ci sono tutti gli altri giocatori. Ma c’è anche chi non ce l’ha fatta. Chi non ha mai messo piede sul parquet di un campo della NBA pur avendone ampiamente tutte le possibilità e le capacità. E’ una storia di sport che inizia in un liceo, il Verbum Dei High School di Watts, Los Angeles. Stiamo parlando di un ragazzo nato nel settembre 1952 per giocare a pallacanestro: Raymond Lewis.

Nei primi 4 anni a Watts, Lewis (point guard) guida la sua squadra a 4 titoli consecutivi, venendo eletto MVP sia da junior che da senior. Il suo compagno di squadra e grande amico, Randy Echols, così lo ricorda negli anni a Verbum Dei:

Nessuna squadra poteva pressarci. Io rimettevo la palla in gioco per Ray e lui letteralmente scompariva, palla in mano. Allora io correvo fino a sotto il canestro e lì sapevo di ricevere un bellissimo passaggio: pensate che spettacolo era vederlo portare palla!

Il ragazzo era davvero fortissimo, palleggio, arresto e tiro. Assist per i compagni, recuperi, giocate a velocità supersonica. Sembrava davvero sparisse dal campo, come un fantasma. Per poi magicamente riapparire. Finita la high school, Ray riceve circa 250 offerte per borse di studio dalle più prestigiose università americane. Lui sceglie California State University. Niente USC, niente UCLA. E’ il 1971 e Raymond Lewis chiude il primo anno a 38.7 di media punti, top scorer di tutti gli States davanti a David Thompson. La seconda stagione la chiude a 32.9 punti per partita e decide quindi di passare professionista.

Il draft NBA del 1973 va così: i Philadelphia 76ers alla numero 1 scelgono Doug Collins da Illinois State e alla numero 18 riescono ad aggiudicarsi Raymond Lewis. Al camp estivo Raymond Lewis distrugge sistematicamente il neo compagno di squadra Collins, che forse non immaginava potesse esistere un giocatore così forte. Non era solo una questione di palla a spicchi, ma anche di soldi e forse anche di pelle: Collins guadagna 200 mila dollari a stagione in un accordo che ne vale complessivamente un milione. Lewis pensa di avere un triennale da 450 mila dollari in totale. Ma la realtà è diversa: Lewis contratta da solo l’ingaggio, senza agente e il reale valore del suo stipendio ammonta a 190 mila dollari sempre in tre anni. Quando Lewis lo viene a sapere, ferito e tradito dalla squadra che lo aveva scelto, abbandona il ritiro estivo e con esso la possibilità dell’esordio nella NBA.

I Sixers lo tagliano anche nella stagione successiva e allora Raymond Lewis inizia a giocare nei playground di Watts e di tutta LA. Nessun palcoscenico importante, niente NBA, solo cemento e canestri di quartiere, il gioco duro e l’uno contro uno. Ray scompare dalla circolazione, si rifugia nel basket di strada e nell’alcool, nessuno sa più niente di lui: è come un fantasma, un fantasma che accarezza dolcemente una palla arancione, un fantasma che danza sul cemento dei playground. Raymond Lewis passa i suoi ultimi giorni proprio a Watts, a casa della madre, malato e in preda all’alcool. Un’infezione alla gamba presto si trasforma in cancrena che degenera rapidamente in una trombosi e in una cecità semitotale. Ray accetta a fatica l’amputazione alla gamba:

Posso sempre andare al playground all’angolo a fare due tiri. Se mi amputano la gamba non potrei giocare

che lo salva momentaneamente dalla morte, sopraggiunta poi l’11 febbraio 2001.
Jerry Tarkanian, nel suo libro Runnin’ Rebel così lo descrive: “il più grande giocatore che io abbia mai reclutato e il più forte di sempre proveniente da Los Angeles.”

Il giocatore più forte di sempre a non aver mai giocato in NBA.

Il sottoscritto al tiro, scalzo, al playground di Venice Beach, con maglietta da Oscar.

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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