Das Nordwand e il mito dell’Eiger

Solo a guardarla fa paura. La parete nord dell’Eiger (Nordwand), vetta di quasi quattromila metri delle alpi bernesi, che domina la vallata di Grindelwald ha un aspetto cupo, minaccioso, terribilmente verticale, perennemente nascosta dai raggi del sole. Una parete di quasi 1800 metri, composta da un tipo di roccia calcarea molto friabile con grandi nevai pensili e caratterizzata da condizioni atmosferiche estreme che mutano di continuo e che rendono la sua scalata una delle prove più ardue per qualsiasi alpinista di caratura internazionale.

Questo “muro della morte” ha rappresentato negli anni trenta dello scorso secolo un problema alpinistico che pareva insormontabile e che ha visto perire nel tentativo di ascesa alcuni tra i più forti scalatori tedeschi e austriaci dell’epoca, in un periodo storico – quello tra le due guerre mondiali – nel quale i regimi totalitari europei cercavano affermazioni in ogni campo, anche in quello dell’alpinismo. In realtà nulla è più distante dalla piatta ideologia totalitaria di una disciplina come l’alpinismo, dove l’uomo si misura in maniera individuale con la montagna, ma prima ancora con le proprie paure e i propri dubbi interiori, in una sfida che nasce spesso da un rapporto con la natura alla stregua del romanticismo, per il quale la montagna diventa il luogo incantato dove l’individuo riesce ad esprimere la propria soggettività grazie all’incorruttibilità della natura stessa, non ancora alterata dalla mano dell’uomo. Al tempo stesso però l’asprezza di una gola, la profondità di un crepaccio rappresentano per i romantici dell’ottocento le varie increspature e sfaccettature dell’animo umano. C’è un quadro di uno dei miei pittori preferiti, Caspar David Friedrich, che credo sintetizzi questa concezione meglio di mille parole. Molti lo conosceranno, si tratta del “Viandante sul mare di nebbia” del 1818.

Ma torniamo alla nostra nordwand: i primi tentativi di scalata del mostro oscuro risalgono al 1934 quando alcuni alpinisti tedeschi riuscirono a salire fino a quota 2900 m, ma furono costretti a ritirarsi. L’anno successivo un’altra cordata tedesca tento l’assalto alla vetta, ma i due scalatori che la componevano perirono a quota 3.300 in un bivacco di fortuna che prese il nome di “bivacco della morte”.
Nel 1936 dopo i primi fallimenti vi fu il tentativo da parte di due cordate inizialmente separate: da una parte i due tedeschi Andreas Hinterstoisser e Toni Kurz, dall’altra gli austriaci Edi Rainer e Willy Angerer. Durante la scalata le due cordate si incontrarono e decisero di unire le forze per domare il “mostro”. Grazie all’intuizione di Hinterstoisser che riuscì ad aprire un passaggio chiave lungo un traverso che oggi porta il suo nome, parve per un momento che finalmente fosse possibile scalare l’Eiger dalla sua parete più impegnativa. Tale speranza si spense qualche centinaio di metri più sopra: Willy Angerer fu colpito alla testa da una scarica di pietre e riportò serie ferite. Pur tentando di continuare, le sue condizioni si rivelarono ben presto molto gravi, quindi il gruppo, complici anche le avverse condizioni del tempo, decise di tornare indietro attraverso il passaggio scoperto da Hinterstoisser. Ciò non fu possibile, e i quattro scalatori tentarono l’unica soluzione alternativa, la discesa diretta ma dopo pochi metri furono travolti da una valanga: Angerer, Rainer e Hinterstoisser morirono immediatamente. Toni Kurz invece sopravvisse, appeso a una corda. Alcune guide alpine tentarono inutilmente di raggiungerlo rimontando una fessura che a causa della neve si era riempita di ghiaccio. In quelle condizioni estreme, Kurz, con una mano congelata e allo stremo delle forze tentò di compiere un tentativo disperato, riuscendo a recuperare la corda che ancora lo legava al povero Angerer. Recisa la corda Kurz riuscì a iniziare una lenta discesa verso la salvezza. Ma a pochi metri dai soccorritori la corda si bloccò improvvisamente per colpa di un nodo. Nello sforzo sovrumano compiuto per cercare di liberarsi Kurz reclinò il capo esanime: era morto per sfinimento.
Questa terribile esperienza è stata riportata sul grande schermo qualche anno fa da un film tedesco, il cui titolo è “North Face – una storia vera

Nel 1938, il 24 luglio, una cordata mista austro-tedesca composta da Ludwig Vorg, Andreas Heckmair, Fritz Kasparek e Heinrich Harrer (quest’ultimo è l’autore e protagonista del libro autobiografico “Sette anni in Tibet” da cui è tratto il film di Jean-Jacques Annaud) riuscì a raggiungere la vetta dopo tre giorni di scalata, grazie anche a ramponi di nuova generazione a 12 punte i quali permettevano un passaggio più veloce sugli infidi nevai pensili che fino a quel momento erano stati affrontati con ramponi a 10 punte. Un mito era caduto per sempre e la propaganda nazista diede molto risalto all’evento con le congratulazioni personali ai 4 alpinisti da parte del fuhrer in persona.

L’anno successivo l’Europa intera cadrà da un altezza ben più elevata in un abisso di morte e distruzione che causerà almeno 40 milioni di morti: la seconda guerra mondiale.
Da quel momento la gloria e le tragedie continueranno a toccare con alternanza tutti coloro i quali decideranno di sfidare l’oscura parete nord (più di 55 decessi fino ad oggi), seppur l’evolversi della tecnica alpinistica e dei materiali utilizzati per le scalate, avvenuta a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso permetterà di trasformare l’ascesa della nordwand da una lotta contro la morte a una lotta contro il tempo. Inizieranno infatti le scalate in solitaria e si susseguiranno vari record di velocità. Ultimo in ordine di tempo, lo svizzero Ueli Steck riuscirà nel 2007 a completare la salita attraverso la via aperta nel 1938 in 3 ore e 51 minuti.
L’anno successivo lo stesso Steck abbatterà il suo record precedente, portandolo a 2 ore e 47 minuti. Un tempo stratosferico, per raggiungere il quale lo stesso Steck si è sottoposto a un dimagrimento di circa 5 kg e a un equipaggiamento volto ad alleggerire lo zaino di circa 3kg che definire ridotto all’osso è un eufemismo.

Vale la pena finire l’articolo con il filmato di questa impresa, una prova di potenza, resistenza, velocità e tenacia che lascia a bocca aperta anche chi come il sottoscritto ama la montagna ma non può certo definirsi (ahimè) un alpinista o arrampicatore. Perchè il bello del rapporto con la natura circostante che si instaura andando per monti è proprio questo: un’intimità unica che non crea distinzioni come altri sport classici tra fenomeni e schiappe, tra primi e ultimi. L’appagamento che si ottiene nel gustare panorami mozzafiato dopo 4-5 ore di duro cammino su per sentieri poco battuti equivale per il trekker alla gioia che pervade lo scalatore nel raggiungere la cima.

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Non possiedo le conoscenze sportive a 360° dei miei “compagni di merende” ma mi difendo bene nel tiro alla fune e nel gioco del fazzoletto. Forse è per questo che mi hanno voluto nella creazione di questo blog, o forse, più semplicemente, quella sera erano ubriachi di birra artigianale. Ho scoperto alle ultime olimpiadi il beach volley femminile e ciò mi ha fatto riflettere, portandomi a considerare gli altri sport un contorno o poco più. Ho il Genoa nel sangue, solo che a volte ne ho troppo e finisce che mi sento male.

4 commenti

  1. diego

    “The North Face” un film per chi ama la montagna e per chi ne comprende il rapporto amore-odio con lo scalatore.

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