Il calcio italiano e la perestrojka – Parte I: il cielo diviso

Questa è la prima parte di un’inchiesta tra vecchi giornali, una piccola indagine che abbiamo deciso di titolare “Il calcio italiano e la perestrojka”. Quattro puntate che raccontano un cambiamento epocale, lo sgretolamento del muro tra est e ovest e l’arrivo dei campioni del mondo sovietico nello sport occidentale. Il calcio italiano è in prima linea e non mancano le zone grigie.
Leggi la seconda puntata: Dietro le trattative, affari italiani
Leggi la terza puntata:
Dici Dinamo e spuntano scarpe da ginnastica
Leggi la quarta puntata
: Le notti magiche e il sovietico che sa di tricolore

Era la fine degli anni Ottanta, ricordi confusi di un bambino innamorato del calcio, quello di strada, quello vissuto, visto e tifato. La passione di portare un cappello colorato allo stadio, l’estate a percorrere i tabellini di acquisti e cessioni sulle pagine sportive dei giornali. L’esotico dei tre giocatori stranieri (sarebbero passati anni prima della sentenza Bosman), l’apertura a mondi sconosciuti o percepiti più dalla fantasia che dalla realtà. Di quegli anni, la sensazione del ricordo di una partita allo stadio Luigi Ferraris di Genova tra Sampdoria e la nazionale dell’URSS, match che suggellava una trattativa appena conclusa: quella, da parte dei blucerchiati, dell’acquisto del centrocampista Alexei Mikhailichenko.

Questa inchiesta nasce da qui, da questo ricordo. Da qui sono iniziate le ricerche sui giornali di quegli anni, soprattutto attraverso gli archivi de La Stampa e de La Repubblica. Ricerche che hanno cambiato in corsa i contenuti, non più il ricordo di una partita ai miei occhi storica, ma un passaggio cruciale del calcio internazionale: i rapporti tra perestrojka e l’entrata del calcio sovietico nel professionismo, la fuga a ovest dei campioni della nazionale, l’arrivo in Italia dei primi tre sovietici. Zavarov, Aleinikov e, appunto, Mikhailichenko. Ma partiamo dall’inizio, era l’estate del 1988…

 

GO WEST! “DISGELO” NEI CAMPIONATI EUROPEI DEL 1988

Comandati dal ct Lobanowski, la nazionale sovietica (o, come scriveva La Stampa, la Dinamo Kiev, più Dasaev) si presenta agli Europei tedeschi in grande spolvero, capace di un calcio totale (“a Communist version of the Total Football of Rinus Michels and Johan Cruyff“, la definisce Jonathan Wilson nel suo libro Behind the curtain. Travels in eastern european football), arioso, una “zona” purissima che aveva il suo terminale offensivo nel trio formato da Protassov, Zavarov e dal pallone d’oro ’86 Belanov. La squadra sovietica vince e convince, s’impone anche sull’Italia di Vicini e viene fermata solamente in finale dall’Olanda di Van Basten e Gullit.

Durante la competizione si creano molte aspettative sui risultati della squadra sovietica, viene criticato il rendimento poco costante e una fiacchezza nei finali che l’aveva contraddistinta in ogni partecipazione precedente. La causa, si dice, è nella scarsa apertura del calcio “comunista” al calcio estero, che rende i giocatori carenti di quel qualcosa che li avrebbe resi dei campioni. Nel frattempo, all’interno della squadra sovietica si apre un duplice dibattito. Da una parte i giocatori lamentano stipendi troppo bassi, circa 700 rubli al mese, comunque il triplo di un operaio (mentre la diaria durante gli europei è di 38.000 lire, rispetto alle 500.000 della squadra italiana), e girano voci di una petizione rivolta a Gorbačëv, trasmessa dal ct Lobanowski per mezzo di un’alta personalità del Governo, perché qualcosa venga loro in tasca del miliardo che l’Uefa passa alla federazione Urss per il torneo). Dall’altra lo stesso generale Valery Lobanowski chiede per tutto lo sport sovietico il passaggio al professionismo, che arriverà di lì a poco. E’ un cambiamento epocale. Per quanto riguarda il calcio, la creazione di una Lega delle società significa la cessazione delle sovvenzioni da parte di esercito, polizia o sindacato ai club, che devono cominciare a pensare all’autosufficienza (il primissimo ad aderire alla svolta è il Dniepr Dniepropetrovsk del presidente Gennady Jizdik). Dovranno impostare i bilanci, renderne conto alla Federazione; per farli quadrare potranno aprire e gestire ristoranti, vendere gadgets, organizzare lotterie, gestire gli incassi e siglare contratti con trasmissioni tv (la Fininvest di Berlusconi si dimostra da subito molto attiva siglando contratti pubblicitari col governo sovietico e con la Dinamo). Ma soprattutto potranno far cassa con la cessione dei giocatori (che non potranno comunque andare all’estero prima dei 28 anni, anche se possono richiedere il nulla osta in ogni momento, discrezione della federazione concederlo o meno).

Altri sport, come la pallavolo, il basket e l’hockey avevano già aperto le frontiere. Ma il football, che fino a quel momento aveva lasciato partire solo Sintchenko, Schavlo e il vecchio Blochin, destinazione per tutti l’Austria, entrerà prepotente nel mercato.
Dieci compagni Protassov per un signor Rizzitelli, titolava La Stampa nel giugno 1988: i giocatori sovietici sono campioni convenienti. Sulla stampa italiana, degli atleti URSS si inizia a raccontare tutto, stili di vita, musica preferita, letture. Le società estere, soprattutto quelle italiane, sono pronte all’attacco.

continua…

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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