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Coppa d’Africa di Istanbul. Lungo le rotte migratorie

Chi si fosse trovato nel giorno prestabilito, per puro caso o per passaparola, nel distretto di Kurtuluş, a Istanbul, a pochi passi da Piazza Taksim, e nei pressi del campo di calcio di Feriköy, avrebbe potuto assistervi: la Coppa d’Africa di Istanbul. I “Sily National” della Guinea Conarky, i “Super-Eagles” nigeriani, gli “Elefanti” ivoriani, i “Leoni di teranga” senegalesi, i “Leoni indomabili” camerunensi, i “Black Star” ghanesi, ogni squadra con un nome di battaglia, ad indicare una caratteristica della comunità di appartenenza, ciò che ci si aspetta venga espresso sul campo: il calcio come metafora dei rapporti tra le diverse comunità.

Nato in sordina, come luogo di incontro e socialità per gli immigrati di origine africana, il torneo è diventato col tempo un vero e proprio evento cittadino, coperto dai media e visitato dai talent scout (tanto che l’edizione 2015 del torneo si è aperta col fischio d’inizio dell’arbitro internazionale Cüneyt Çakır). Gli spalti sono stracolmi, i giocatori sul campo danno tutto loro stessi, un occhio alla palla e uno alle gradinate, nella speranza che in mezzo alle facce nere degli spettatori si nasconda quella più pallida dell’impresario in incognito di qualche società calcistica turca. È per lui che i giocatori si allenano tutto l’anno nei campetti sparsi per la città.

Tra gli atleti viaggia di bocca in bocca la leggenda del migrante-calciatore che ce l’ha fatta, quello ingaggiato da un club turco di cui nessuno ricorda il nome. Alcuni lo ricordano maliano, ma, chissà, forse si tratta invece di Gideon Adinoy Sani, classe 1990 e un viaggio che l’ha portato da Lagos a internet, perché Sani ce l’ha fatta e quindi ha una scheda con la sua carriera sui siti web sportivi. Sani era partito insieme ad altri promettenti calciatori e ad un agente: a Istanbul un provino tutto sommato andato bene, ma la squadra turca richiedeva i documenti in regola e non il semplice visto turistico. Niente da fare. Poi il visto è scaduto e l’agente se n’è andato, ma Sani e un suo compagno hanno deciso lo stesso di rimanere irregolari in Turchia. Il torneo al Feriköy è la sua svolta: un primo ingaggio coi dilettanti dell’Izmirspor che l’hanno portato a un contratto di tre anni con la squadra di serie B Akhisar Belediyespor e a matrimonio utile per ottenere il permesso di soggiorno: perché nessun club, comunque, ti offre un contratto se non sei a posto coi documenti.

Sani è l’eccezione alla regola della clandestinità. Sono molti i giocatori che dall’Africa arrivano a pagare fino a 3000 $, racimolando i soldi dall’intera famiglia, per venire a giocare in Turchia, convinti da falsi manager che spesso abbandonano questi ragazzi in qualche albergo, con in mano un visto scaduto e neanche un soldo per tornare indietro. Una forma di sfruttamento insolita, che difficilmente ottiene visibilità sui media, che si nutre dei desideri e della fiducia dei migranti.

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Abbandonati a Istanbul, e svanita in quel momento la loro possibilità di sfondare nel calcio turco, ai giovani atleti non resta altro che trovare da vivere e cercare altri africani, entrando in quel mondo di intermediari, trasportatori, guide, fornitori di alloggi che si crea in ogni snodo migratorio. Sono due flussi migratori che confluiscono: i migranti giunti dall’aeroporto Ataturk,  quelli per cui Istanbul poteva essere la destinazione, e quelli che hanno raggiunto il territorio turco via mare, per cui la città è vista solo come una tappa intermedia per arrivare in Europa.

Giocatori provenienti da tutta l’Africa subsahariana arrivarono a popolare il campionato turco già a partire dai primi anni Novanta. E per alcuni si trattò di squadre di livello internazionale, come il nigeriano Dominic Iorfa che nel 1991 firmò per il Galatasaray. Negli stessi anni una prima, sporadica emigrazione africana in Turchia iniziò attraverso le rotte battute dai curdi e dagli iracheni. Un fenomeno che col tempo si fece più consistente.
Ma fu all’inizio degli anni Duemila che gli africani cominciarono ad essere un problema. E con la crisi economica e il crollo della Lira turca anche un ottimo capro espiatorio. I turchi iniziarono a compiere retate e a espatriare in Grecia più migranti africani possibile. La Grecia li riportava indietro. Un ping pong che si interruppe solo per le pressioni dell’Unione Europea che convinsero la Turchia a tenerli entro i propri confini.
I clandestini diventarono sorvegliati speciali: Ankara non li regolarizzava, tollerava la loro presenza, ma li teneva d’occhio. Non li avrebbe rispediti in Grecia: si sarebbe “limitata” a organizzare ogni tanto delle retate, a catturarne qualcuno e chiuderlo in carcere. Motivo per cui la finale 2006 della Coppa d’Africa di Istanbul, tra Nigeria e Guinea, non venne disputata, dato che metà squadra nigeriana nottetempo era stata arrestata.

Nel corso degli anni la frontiera europea si è andata dividendo in una miriade di “sottofrontiere”. Al di là del nucleo dei paesi di Schengen in cui, più o meno fino ad oggi, si è circolato liberamente, esistono frontiere esterne: paesi come Ucraina, Marocco, Libia e Turchia, con cui l’UE firma accordi, promettendo fondi e chiedendo in cambio di svolgere per lei i compiti più spiacevoli, tra cui bloccare con ogni mezzo i flussi di immigrati.
In Turchia, ad esempio, Bruxelles ha aperto il dialogo sulla liberalizzazione del regime dei visti solo in concomitanza della firma di un accordo che consente agli Stati membri di rinviare in Turchia cittadini di paesi terzi immigrati irregolarmente attraverso il territorio turco. Accordo siglato nel dicembre 2013, ratificato dal parlamento turco nel giugno 2014 e la cui entrata in vigore è prevista per il dicembre 2016.
La sensazione è quella di un cordone sanitario, la creazione di una zona grigia talmente estesa da far perdere le speranze ai migranti. In questo senso Istanbul, coi suoi ghetti di Kumpkapi e Tarlabasi, non è molto diversa dal Takadum di Rabat o di altri snodi migratori, con le stesse consuetudini e spesso semplici parcheggi di uomini in transito.

Chi non rinuncia a entrare nella “fortezza”, vede con scoramento l’aumento della sorveglianza col confine bulgaro e il muro lungo più di 12 Km presso il fiume Evros che separa la Turchia e la Grecia; nel mentre si prepara per la traversata in mare verso le isole greche. Ma i tempi si allungano. Intrappolati a Istanbul, nell’attesa di racimolare il denaro necessario almeno a tornare a casa, molti migranti non rinunciano all’alternativa calcistica. La Coppa d’Africa locale, s’è detto, è ormai appuntamento fisso, tanto che il sindaco Mustafa Demir, della municipio di Fatih, ha deciso di dare una mano a questi aspiranti atleti fondando una squadra, la Afrika Dostluk Spor Takimi, composta da 50 giocatori, dandogli un campo, un allenatore e la possibilità di allenarsi quattro volte alla settimana. In modo da esser sempre pronti, qualora capitasse l’occasione.


Bibliografia

Stefano Liberti, A Sud Di Lampedusa. Cinque Anni Di Viaggi Sulle Rotte Dei Migranti, Minimum Fax, Roma 2011.
Theodore Baird, “Watching the Ball: Deception and Exploitation from Nigeria to Turkey,” Turkish Review 4.4 (2014).
Daniele Santoro, La Turchia, cuscinetto fra profughi siriani e “fortezza Europa”, Limes, 6 (2015).
Marco Mathieu, Dall’Africa dietro un sogno: “Giocare per vivere, Repubblica.it (2011)

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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