wimbledon

Erba sacra

All England Lawn Tennis and Croquet Club, per 44 anni di seguito (1924-1968). Terza settimana di giugno all’approssimarsi del torneo di Wimbledon. Ogni riferimento a persone, fatti e accadimenti è puramente reale.

In testa un unico pensiero, nel naso un solo odore, le mani sempre chiazzate di verde e gli occhi sempre fissi su quel prato, estasiati, come quando si fissa il fuoco di un falò. L’aria profuma di rose ed erba appena tagliata, tutto è pronto per l’inizio del più grande torneo di tennis del mondo: il viola reale e il verde dei campi addobbano il centro sportivo, i giocatori hanno messo in valigia i loro completi bianchissimi e nuovi, verranno serviti litri di Pimm’s e quintali di strawberry and cream. Ma in testa io ho solo l’erba; il mio unico pensiero. Sono seduto sulla mia sedia, nel corridoio che porta al campo centrale, e guardo il manto erboso. Lo fisso intensamente e ne sono come rapito: quanto lavoro con i miei collaboratori, quanta dedizione per ogni singolo centimetro. Io, Robert Twynam, responsabile dei campi di Wimbledon, immagino e considero ogni filo d’erba come fosse un individuo, con le sue esigenze, un suo destino, e soprattutto il diritto inalienabile di crescere su quel prato benedetto. Mi alzo lentamente e cammino in direzione del campo: il manto erboso è perfetto. Mi metto a carponi fuori dalle righe, dò un paio di buffetti al prato, talmente compatto che l’eco è quello di una fucilata. I giocatori più forti si sfideranno su questo campo e i loro colpi migliori daranno voce alla palla come fosse un sibilo, uno sfrigolio. Sto lì carponi per diversi minuti, guardo il taglio da vicino, sento il profumo, sento i fili d’erba e la loro voce, il loro palpitare. Poi mi alzo e cammino lentamente e con grazia verso il Lightfoot, il frigorifero dove vengono conservate le palline, ai margini del campo centrale. Lo apro e controllo che sia tutto a posto. E pensare che, per molto tempo, nello stesso frigorifero, io tenevo latte e burro: ero l’unico residente del All England Club ma non avevo i soldi per comprare un frigo. Sorrido, ritorno alla mia sedia tra il Royal Box e il West Open Stands, la sistemo con cura in un punto in cui non dia fastidio agli spettatori: durante il torneo devo essere in grado di intervenire prontamente in caso di problemi al campo e quello è il posto migliore. E questi sono i campi in erba migliori al mondo. Tutto deve essere curato nei minimi dettagli. Mi aggiusto le bretelle e vedo arrivare la sagoma di John Yardley, colpo d’occhio e mano ferma da chirurgo, è lui a tracciare le righe sui campi.

“Ciao John, come va?” gli chiedo. “Bene signor Twynam, sono solo un po’ nervoso per l’inizio del torneo ma va tutto bene”. Con calma gli rispondo “Ehi John, abbiamo passato i rulli leggeri e li abbiamo passati con la giusta tempistica. I campi sono perfetti, bisogna solo lucidarli. Appoggia la mano sul campo John”. Ci chiniamo insieme e sentiamo le cime perfette di quei ciuffi alti mezzo centimetro. “Adesso traccia le tue righe. Fai un bel lavoro come al solito John” “Si, mister Twynam”. Tutto sarà perfetto per il giorno del debutto, come sempre. Vado lentamente verso casa, che dista 47 secondi netti dal Centrale, passando fra il bar interno e il chiosco degli hamburger di Wimpy. Tornerò più tardi al campo quando tutti saranno rientrati a casa e quando la luce del tramonto conferisce all’erba un colore indefinito e cangiante, l’ora dei gentiluomini per dirla alla Don Winslow, quando tutti sono a casa e hanno finito di lavorare.

Il sole sta tramontando, tutti hanno lasciato le loro mansioni e ritornano dalle loro famiglie e alle loro case. Anche io decido di andare a casa: prendo il mio giubbino leggero e mi dirigo sul Campo Centrale. La luce del sole che tramonta è color rame, mi siedo ai bordi del campo con il mio taccuino in mano e osservo. Oramai non leggo più le riviste Turf for Sport o The Groundsman, leggo il mio taccuino e mi faccio guidare dall’esperienza. L’atmosfera è così bella qui. Il campo è vivo quanto i giocatori, la fibra dell’erba è elastica, fra superficie e soprassuolo ci sono due centimetri e mezzo di vita, a circa sessanta centimetri di profondità ci sono le canaline di scolo montate a spina di pesce su uno strato d’argilla; in mezzo clincher e cenere. A venti centimetri terra morbida e argillosa dove affondano le radici. Guardo il campo alla luce del tramonto e ogni zona ha un suo colore e una sua tonalità di verde, alcune zone sono più chiare, hanno una tonalità grigia che contrasta col verde smeraldo di quelle circostanti. Non dipende dalla luce, ma dalla qualità dell’erba. Le chiazze più chiare sono di poa pratensis (cinque per cento), quelle verde smeraldo sono di festuca rubra e browntop americana. Sono le erbe migliori per i campi da tennis. La festuca perché diventa manto, la browntop per la sua resistenza. La festuca è olandese e ricopre l’ottanta per cento del campo, la browntop viene dall’Oregon e ricopre il restante quindici per cento. Tutto questo è segnato sul mio taccuino, il mio vangelo. Tutto è nella mia mente.

Il sole è definitivamente calato, magari più tardi ci sarà un timido rovescio di pioggerellina, sarebbe perfetto se durasse poco meno di un’ora, rinfrescherebbe il campo e l’aria, ma la pioggia, ancora non la posso controllare. Chiudo il taccuino alle 21.14. Domani inizia il torneo, domani sarà un grande giorno: la premiere a Wimbledon sulla mia erba. E non posso desiderare di essere in nessun altro posto: i giocatori, le Slazenger, le racchette e quel manto verde smeraldo che è il mio lavoro e la mia casa, il mio posto nel mondo.

Bibliografia

John McPhee, Tennis, Adelphi, Milano 2013 (IV edizione).

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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