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Lev Jašin

levs_flightC’era bisogno di un libro per conoscere Jašin, o almeno per saperne un po’ di più. Di più di quello che mi è sempre arrivato dai racconti del mio compagno di banco, portiere di provincia: il mitico portiere dell’Unione Sovietica che all’ennesimo rigore parato getta per terra i guanti ormai laceri per continuare a giocare senza. Storia, a mente fredda, mai successa, e più da manga giapponese che da socialismo reale. Mi pongo il problema solo ora, terminato il libro e a distanza di anni.

Il libro è Jašin. Vita di un portiere, di Mario Alessandro Curletto e Romano Lupi (Il melangolo, 2014). Jašin estremo difensore di Dinamo Mosca e URSS. La storia è nota: la vittoria olimpica, l’Europeo e il Pallone d’oro; poi le storiche sfide tra i pali della selezione del Resto del mondo; infine il ritiro, la sua missione di “ambasciatore” in occidente (quasi un primo accenno di Perestrojka) e la canonizzazione dopo la morte, la sua figura tra il pantheon di campioni attorno allo stadio Lužniki.
Jašin famoso come il cosmonauta Gagarin, ma anche Jasin quindicenne meccanico sagomatore.
La sua storia inizia qui, nel campo nato vicino alla fabbrica a Tušino: portiere della squadra di fabbrica, ruolo impostogli dall’allenatore forse per la struttura imponente del giovane Leva.
Nato a 12 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e morto a poco più di un anno dalla fine dell’URSS, il suo destino non può essere separato dal mondo sovietico. E la sua carriera non poteva che cominciare con la squadra di fabbrica e con il servizio militare, dove difende la porta della propria divisione. Sarà proprio un torneo disputato con questa selezione che gli aprirà le porte della squadra del ministero dell’interno della capitale, la Dinamo di Mosca. Resta solo da scegliere tra calcio e hockey, sport che praticava nei mesi invernali, ma la decisione non tarderà ad arrivare.

Nel frattempo il calcio in URSS ha già vinto la sua battaglia ideologica e da sport osteggiato come borghese e diseducativo, diventa fenomeno di costume: entra nella letteratura, nell’arte, nello spettacolo. L’utilizzo come propaganda è quasi una conseguenza. Il futbol diventa la rappresentazione utopica di una nuova generazione sana e felice: le scuole iniziano a promuovere la cultura sportiva, si costruiscono stadi capienti (tra tutti lo stadio Dinamo di Mosca coi suoi 45-50000 posti) e nelle sale cinematografiche arriva Vratar’ (Il portiere), pellicola calcistica dove protagonista è un portiere che, grazie alle sua bravura, porta la squadra sovietica alla vittoria contro i temutissimi Bufali Neri dall’inequivocabile aspetto tedesco. La Seconda Guerra Mondiale è alle porte, bisognerà attenderne la fine per assistere all’ascesa del Ragno Nero.

“Ehi, portiere, preparati alla battaglia!
Sei di guardia alla porta!
Immagina che dietro di te
Corra la linea del confine!”

(Marcia dello sport – Vratar’)

Il portiere si presta alle narrazioni eroiche per il semplice fatto di essere il ruolo più individuale del calcio. Per Jašin la questione è un po’ diversa: nella sua storia è presente la consapevolezza di appartenere a qualcosa di più grande – come sovietico non poteva permettersi di essere individualista – e di sentirne la responsabilità. Una responsabilità che si portò appresso anche terminata l’attività sportiva.
Il Ragno Nero raggiunse il Pallone d’oro nel 1963, quasi alla fine carriera e in un momento in cui, a causa di prestazioni non esaltanti, la sua popolarità in patria era in caduta libera. Fu l’Occidente a premiarlo, forse per le straordinarie parate durante un’amichevole tra Inghilterra e una selezione Resto del mondo (Jasin ne difese la porta per 45’)  per commemorare i cento anni della “Football Association”. L’Unione Sovietica capì di avere trovato il personaggio giusto, l’incarnazione dell’uomo nuovo sovietico presentabile al di là della cortina di ferro.
Nel 1971 Jašin diede l’addio al calcio, terminò la scuola superiore del PCUS e iniziò quella di “ambasciatore” della cultura sovietica, ruolo che lo portò anche in Italia, nel 1974, per le Giornate di cultura sovietica in Basilicata.

Morto nel 1990, in un’Unione Sovietica che si stava sfaldando, la sua immagine ha goduto di fasi alterne.
Il grande spazio ecumenico del Viale della Gloria che circonda lo stadio di Lužniki celebra la “canonizzazione” di tre grandi giocatori: Nikolaj Starostin, Lev Jašin ed Eduard Strel’cov. Se il primo, campione dello Spartak Mosca della prima metà del ‘900, gode di una popolarità trasversale, per gli atri due atleti la faccenda è più complicata: come grigio e glorificato sportivo di regime e giocatore della Dinamo (emanazione del Ministero dell’Interno) la fama di Jasin ha subito una flessione dopo la caduta dell’URSS. Erano preferite storie come quella di Strel’cov: autentico ragazzo del popolo, genuinamente russo anche nel debole per l’alcol, che venne perseguitato dal regime (che gli negò, dopo un’accusa probabilmente ingiusta di violenza carnale, il mondiale di Svezia del 1958, oltre a costringerlo a diversi anni d’inattività) e che militò nella Torpedo Mosca, squadra appartenente alla fabbrica automobilistica ZiL, non legata alle maggiori strutture del potere statale.

Il rinnovato nazionalismo di Vladimir Putin sta in questi anni provando a riproporre la figura di Lev Jašin con la pubblicazione di nuove biografie e la stesura delle sceneggiature per due film che si vorrebbe fare uscire entro il mondiale di calcio russo del 2018. Un’interesse che, per ora, ha trovato l’opposizione della moglie dell’ex portiere, pronta a difendere l’intimità della propria vita familiare e contraria ad un’ulteriore strumentalizzazione patriottica delle gesta atletiche del marito.

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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