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Macchie d’erba

Sono sempre stata dalla parte dei campi in erba. Quella vera. Il sintetico mi irrita, è finto, fasullo. L’erba, invece, è vera appunto. Macchia e sporca. Lascia un segno sulla maglia, sulla pelle. Il rugby è di per sé uno sport “sporco”: non perché sia basato su imbrogli, anzi, ma perché il sudore e la fatica sporcano la freschezza di un viso pulito. Le botte macchiano il corpo di lividi. Di macchie d’erba. Non ho mai avuto l’occasione di assistere ad un match dal vivo. Mi piacerebbe, ma ancora non mi è capitato.
Per fortuna c’è la tv.

Un pomeriggio uggioso passato sul divano. Minuti appassionati, passati ad osservare la palla ovale che a volte sembrava sfiorare l’inizio del cielo. O un po’ più su, da una meta all’altra di Twickenham. Cornice unica. Macchie bianche e azzurre sul manto verde. Le prime un po’ più tranquille, le seconde tremolanti. Non di paura. Il rugbista non cerca il coraggio nei pettorali sviluppati, ma negli sguardi dei suoi compagni, amici di emozioni: partite perse e vinte. Piccole soddisfazioni, sempre grandi.

Mai come nel rugby si vede il collettivo. Individui singoli che diventano tutt’uno. Fusione di muscoli e forza. E tanta ne evapora da quel sudore, che bagna il prato. Ogni goccia che scende dal viso crea voragini, scivola giù, in fondo, fin dentro l’erba. Il sudore è il pianto della fatica, si strizza, fino quasi a prosciugarsi. Chi non soffre non vive, nello sport come nella vita. Si soffre, assieme. Si vive, assieme.

Pelle bianca che diventa rossa. Maglia azzurra che si macchia di verde. Avversari da atterrare.
All’inizio, la macchia azzurra, ci ha creduto. Ha spinto forte, con i denti protetti dalla gomma bianca. Ha mangiato aria pesante, piena di aspettative, perché gli scarpini stavano attraversando le navate di quello che è uno dei templi dello sport. E lo hanno omaggiato, cercando di non perdere lucidità e concentrazione. Le prime macchie d’erba sulle maglie e sui pantaloncini hanno cominciato a comparire. Una, due, dieci. Botte sulle braccia e sulle gambe. Macchie verdi sulla macchia azzurra. Macchie d’erba, tatuate sulle cosce e sugli avambracci.

E’ durato poco lo stargli davanti. All’inizio il parziale era di 3-5. Poi gli inglesi hanno cominciato ad avanzare, sempre di più, sempre più forte, sempre più insistentemente. Le ginocchia hanno cominciato a piegarsi, sotto il peso di troppe macchie d’erba. Troppe sull’azzurro, troppo poche sul bianco. Il tabellone ha cominciato a cambiare. I numeri a crescere solo da una parte. E il finale, 47-17, è stato ingiusto.

Gli sguardi non si sono abbassati, nemmeno sotto quelle gravose macchie d’erba. Se ne dovessi scegliere uno, credo vorrei incorniciare quello di Luca Morisi. Ragazzone del 1991, che ritrova la gioia dell’azzurro, dopo un infortunio che gli è costato caro. Milza asportata. Viso pulito, sporcato solo dall’attesa. E il momento giusto alla fine è arrivato. Ha colto la rosa, citando L’attimo fuggente. La sua rosa è stata una meta, capolavoro della partita. Voluta, cercata e ottenuta. Una magia, quasi: scartati gli avversari, un buco in mezzo alla bolgia, la palla che corre insieme a lui e poi eccola. Lo ricorderà a lungo quel momento: la platea folta in ossequio sulle gradinate per una grande giocata. Attimi che ricompensano la sofferenza.

Finiti gli 80 minuti tutto si ferma. Ognuno torna se stesso. La macchia azzurra, sporcata di verde e fango, si scompone. Nello spogliatoio ci sono andati tra gli applausi, con gli sguardi persi sul prato, rassegnati a dei numeri scritti sul tabellone, ormai definitivi. Parlano chiaro, forse fin troppo. Raccontano una debacle. Nonostante la garra. Sembrava possibile, ma è stato l’ennesimo “no” del campo dall’erba morbida, ma così pungente.

Hug me, I’m 1/2 italian, diceva la maglietta di uno spettatore, messa in mostra alla fine del match.
Vincitori e vincenti.
Concetti che non sempre coincidono.

Credit Image: Erich Gordon

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Giulia Scala
Sognatrice con i piedi per terra. Amo lo sport e amo raccontarlo su EatSport. Scrivo di ciclismo su La Favola del ciclismo.
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