The Sound Of Silence

Nel Settembre del 1965, Paul Simon e Art Garfunkel, fanno uscire la loro canzone di maggior successo: The Sound of Silence. Sempre nello stesso anno viene assassinato Malcom X. Un anno prima, nel 1964, Martin Luther King riceve il premio Nobel per la pace. Solamente 4 anni dopo, nel 1968, King fa la stessa fine di Malcom X: due diversi modi di rivendicare i diritti degli afroamericani negli Usa; stessa identica fine. Nel 1968, l’8 settembre, Arthur Ashe vince il suo primo torneo slam di tennis. Ma questi eventi come sono correlati tra loro? Che nesso c’è tra tutte queste date? Quasi sicuramente nessuno, ma proverò a spiegarlo, con i miei soliti voli pindarici.

L’edizione degli US Open del 1968 si gioca, come di consueto, nel complesso sportivo di Forest Hill, quartiere del Queens poco distante da Flushing Meadows, attuale sede dell’Open americano. Il campo è in erba, oggi si gioca sul DecoTurf ( una superficie molto veloce e che genera rimbalzi molto bassi). Forest Hill è un quartiere residenziale abitato da persone di ceto medio-alto. Tra loro anche due ragazzi: uno di origini ebreo-ungheresi, Paul Simon; l’altro di origini ebreo-rumene, Art Garfunkel. Simon and Garfunkel nascono e crescono nel borough di Forest Hill e lì concepiscono e costruiscono i loro più grandi successi musicali. A me piace pensare che “The Sound of Silence”, sia stata scritta proprio guardando una partita di tennis, anche se non andò proprio così, e la storia è pronta a smentirmi. Perché nel tennis se c’è una cosa che emerge in tutta la sua profondità e in tutto il suo rumore è il silenzio. Il tennis è una partita a scacchi giocata in movimento, non devi far capire nulla al tuo avversario, non devi comunicargli nessuna emozione, incomunicabilità totale: the Sound of Silence appunto. A tal proposito, oggi, gli spettatori dello US Open non sono silenziosi come quelli di Wimbledon, fanno molto più “chiasso” e la location non aiuta molto: Flushing Meadows è molto vicino all’aeroporto La Guardia e spesso si sentono i rumori degli aeroplani che atterrano o partono.

Ma ritorniamo indietro agli US Open del 1968: Arthur Ashe è alto poco più di uno e ottanta e pesa settanta chili, ha 25 anni. E’ destro. Ha una corporatura che con qualche muscolo in meno si potrebbe definire gracile, ma ha una coordinazione talmente straordinaria che la pallina schizza via dal piatto corde ad una velocità spaventosa. Arthur serve molto forte e preciso, il suo tennis è dentro o fuori, disinvolto, democratico. E’ un maestro nelle smorzate, nei colpi di controbalzo, un impeccabile giocatore a rete. Ashe è un giocatore nero, occhialuto, non ancora professionista e sta giocando la prima edizione dei campionati americani di tennis dell’era Open, quello che sarà nominato successivamente US Open. La sua storia come il suo tennis sono incredibili: la sua famiglia è composta da intere generazioni di schiavi neri. Nel 1735 il Doddington, un brigantino immatricolato a Liverpool, entra nel fiume York, in Virginia, con un carico di centosessantasette neri dell’Africa occidentale. Il capitano James Copeland, svuota le stive a Yorktown, e le riempie di tabacco. Nella circostanza un coltivatore di Lunenburg, Robert Blackwell, compra una giovane donna di cui si conosce solo il numero, che offre a suo figlio come regalo di nozze. Nei registri della contea la schiava figura solo come “ragazza negra”. Secondo l’uso prende il cognome del padrone, di cui sposa un altro schiavo che, ovviamente anche lui si chiama Blackwell. I due hanno una figlia, Lucy. La figlia di Lucy, Peggy, sposa un cugino, Tony, dando alla luce Jinney che sposerà Mike. In questa catena, molto complicata, il figlio di Jinney e Mike è l’ultimo schiavo. Nasce nel 1839, e nel 1856 sposa Julia Tucker che gli dà 23 figli. Una di queste, Sadie, sposa Willie Johnson e la loro figlia, Amelia, un certo Pinkney Avery Ashe. Nel 1938 il figlio di Pinkney e Amelia, Arthur, sposa Mattie Cunningham, che nel 1943 dà alla luce Arthur Jr. Questo albero genealogico è custodito da una cugina di Arthur Ashe, tale Thelma Doswell e conta 1500 foglie circa, quella di Arthur è dipinta in oro. Al centro vi è uno stemma con una catena nera spezzata, simbolo del giogo infranto della schiavitù, ai lati foglie di tabacco, quelle che per decenni gli avi di Ashe avevano raccolto nelle piantagioni. Thelma Doswell ha passato anni nelle varie biblioteche della Virginia per raccogliere tutte queste informazioni.

Arthur Ashe inizia a giocare a tennis a sei anni sui campi di Brook Field a Richmond in strutture riservate ai neri. Il suo primo maestro è Ronald Charity, ma è a dieci anni che avviene la svolta grazie al dottor Robert Walter Johnson, suo secondo maestro. Così lo descrive Ashe stesso “un nero ricco sfondato con un campo da tennis privato, una Buick, e le tasche sempre piene di soldi”. Arthur e gli altri allievi del dottor Johnson lavorano come giardinieri presso la sua proprietà. In cambio il ricco dottore insegna loro a giocare a tennis. I ragazzi, assieme ad altri giocatori poi si sfidano nei tornei del circuito ATA, riservati ai giocatori di colore. I bianchi giocano nel circuito equivalente chiamato USLTA. Ed ecco che entrano in “campo” anche Malcom X e King, citati ad inizio articolo: bianchi e neri non possono giocare a tennis insieme. Sono gli anni ’60 e il razzismo nei confronti degli afroamericani è al suo apice. Proprio il dottor Johnson è uno dei primi a spingere affinchè fossero abbattuti i pregiudizi razziali e affinchè i giocatori di colore potessero competere nei tornei USLTA insieme ai bianchi. L’edizione del 1968 dei campionati americani di tennis fu la prima dell’era open. Potevano partecipare sia bianchi che neri, sia professionisti che dilettanti. Le idee del dottor Walter Johnson iniziano a dare i primi frutti. E Arthur Ashe continua a dare spettacolo. Al torneo partecipano campioni del calibro di Rod Laver, Ken Rosewall, John Newcombe, Clark Graebner, Tom Okker (finalista sconfitto da Ashe), Fred Stolle e Pancho Gonzales. Insomma il gotha del tennis. Ma le variazioni di Arthur sono micidiali per tutti. Soprattutto per Graebner, sconfitto in semifinale. Una partita epica perché, se Ashe rappresenta il tennis democratico e disinvolto, Graebner è la quintessenza del tennis repubblicano conciso e rigido. Graebner infatti, è figlio di un dentista e vende carta di altissima qualità per la Sexton Industries. In quella semifinale finita 4-6, 8-6, 7-5, 6-2 Arthur Ashe e Clark Graebner danno spettacolo, uno sembra danzare sull’erba, l’altro più potente, cerca di annientare il ballerino nero. Tra loro c’è grande rispetto si conoscono da molti anni e la sfida è molto sportiva. Ashe vincerà anche in finale: primo giocatore uomo di colore a vincere un torneo dell’era Open. Primo a far andare di moda il nero nel tempio dell’ all-white: vincerà anche Wimbledon nel 1975 sconfiggendo in finale Jimmy Connors.

Il campo centrale di Flushing Meadows dedicato ad Arthur Ashe

Ecco a chi è intitolato il campo centrale di Flushing Meadows, ad un uomo che, aveva combattuto con la racchetta e con l’intelligenza, la sua partita più difficile, quella nei confronti dei pregiudizi razziali; ad un atleta che, provato dall’AIDS così parlò a Gianni Clerici, a Wimbledon nel 1992, mentre stavano salendo le scale che portavano alle camerette televisive, i luoghi dei commenti alle partite: “Caro Gianni, l’anno prossimo temo che non sarò più in grado di salirci” disse, con un sorriso dolcissimo. “Non avrai le vertigini?” ribattè Clerici. “Forse mi verranno, a guardarti tanto da lontano, lassù nel cielo”. Ad un uomo, Arthur Ashe, che faceva del suono del silenzio il suo migliore alleato, e dell’intelligenza la sua più cara amica per non sentire, quei punti dubbi, chiamati fuori solo perché lui era un atleta nero.

Bibliografia

  • John Angus McPhee, Tennis, (titolo originale Levels of the game, 1969), Adelphi, 2013.

 

The following two tabs change content below.
Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

Ultimi post di Francesco Salvi (vedi tutti)

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>