Il Mio Numero 10

Nel calcio di oggi, ci si emoziona raramente rispetto al passato: o meglio, a me, accade sempre meno. Ed è una cosa un po’ triste se ci penso: togliere ad un tifoso le emozioni uniche che il calcio dà, è come pugnalarlo alle spalle. Guardo le partite perché mi piace lo sport, ma non mi esalto più di tanto. Non ci sono giocatori che mi danno, letteralmente, alla testa. Alcuni mi piacciono molto e ne apprezzo la qualità tecnica e atletica (Di Maria, Iniesta e James Rodriguez ad esempio) ma non mi scaldano veramente. Mi ricordo di aver visto giocare numeri 10 che ti facevano vibrare l’anima, quando toccavano il pallone: Maradona, Baggio, Zidane, Platini, e, da tifoso sampdoriano, aggiungo Mancini.

Oggi vedo numeri 10 talentuosissimi, che segnano valanghe di gol, che dispensano assist meravigliosi ai compagni, ma che sono “ingabbiati” da un ipertatticismo esasperato e da difese attentissime. Limitare la fonte della fantasia, della creatività, dell’imprevedibilità di una squadra, significa limitarne il numero dieci. Significa cercare di reprimere sul nascere tutte le sue giocate. Ed essendo il 10 l’unico in campo a poterti fare emozionare, il risultato è l’appiattimento emotivo della maggior parte delle partite che si giocano.

Ho in mente questa scena: il mister, negli spogliatoi, che dice ai terzini di spingere e coprire, ai marcatori di picchiare con furbizia, ai centrocampisti di farla girare alle ali, che a loro volta, devono scendere in profondità. Al numero 9 viene detto di buttarla dentro, e al dieci? “Pensaci tu, fammi vincere la partita, fai quello che vuoi ma fammi vincere la partita”. Ecco cosa dicevano i mister di una volta ai loro numeri 10. Oggi direbbero “crea la superiorità, ma torna a coprire in fase di non possesso”. Tutto più ordinato e intelligente con Bacconi che ci spiega quanti passaggi ha completato il numero dieci di turno. A me è sempre piaciuto invece il calcio “campagnolo” e incasinato, molotov per dirla Futbologicamente. Quello delle emozioni improvvisate come lampi, non quello del razionalissimo tiqui taca o del modello tedesco fatto di solidità estrema unita ad ottima qualità: troppo facile ma troppo freddo. Il mio simbolo di questo calcio sull’ottovolante, è un numero 10 tanto geniale, quanto incasinato; fortissimo tecnicamente, un po’ meno mentalmente; generoso lottatore e leader nello spogliatoio. Il numero 10 che mi ha fatto emozionare di più, è quello dei miei 22 anni, quando non guardavo pigramente le partite alla tv, ma andavo allo stadio con gli amici, Simone, Alessandro, Gianluca e Roberto e sentivamo l’odore dell’erba da vicino. A loro quattro dico: forse sarà stata l’età, forse il fascino di Marassi, forse un calcio diverso o forse l’odore dell’erba ma il nostro numero dieci è, e resterà, Francesco Flachi.

Viene a Genova nell’estate del 1999, dalla Fiorentina. Alla viola era chiuso da gente come Batistuta, Rui Costa, Edmundo e Oliveira. Lui e “Spadino” Robbiati, giovani talentuosi, faticavano a trovare spazio. E allora Francesco decide di trasferirsi alla Sampdoria, appena retrocessa in serie B. Allo stadio ho visto giocare squadre come Pistoiese, Savoia, Alzano Virescit e Cittadella, ma ho visto anche il “brivido sopra la follia”, per dirlo alla Vasco, di Francesco Flachi. 112 gol in maglia blucerchiata, terzo miglior marcatore di sempre della Sampdoria dietro a Mancini e Vialli; Flachi era una trottola impazzita: scatti in profondità, giocate di assoluta classe, corsa e pressing al servizio della squadra e, soprattutto, un “cuore” infinito. Faceva come voleva, ma lo faceva bene e senza mai essere sopra le righe. I gol e le corse verso la gradinata con la maglia tirata su: sotto aveva sempre una t-shirt con scritto “10 Gerard”. Solitamente baciava la fede e dedicava il gol a noi tifosi. A noi, che nel preciso momento della marcatura, eravamo semisdraiati sui gradoni della Sud in preda ad una gioia incontenibile. In preda ad un’autentica emozione calcistica. Poi si portava le mani alle orecchie e voleva sentirci. Come tutti i grandi artisti e come tutti i grandi numeri 10 aveva il suo marchio di fabbrica. Modigliani aveva i lunghi colli, Maradona un intero repertorio mancino, Picasso i cubi, Baggio faceva diventare semplice l’impossibile, Chagall dipingeva violini, Zidane eseguiva la bicicletta almeno 2 o 3 volte a partita. Van Gogh faceva vibrare le tele, Flachi, nel suo piccolo, faceva una cosa come nessun altro al mondo: la rovesciata, la “ruva”. E non la faceva bene in termini di stile o perfezione tecnica. A volte erano rovesciate sporche o mezze rovesciate, ma la faceva quasi ogni partita e spesso la palla la buttava dentro. Perugia-Sampdoria 3-3: doppietta di Flachi, entrambi i gol in rovesciata, ed una terza, salvata miracolosamente da uno strepitoso Tardioli. Era il 2003. Un anno prima, il mio cuore, aveva rischiato di non reggere: Sampdoria-Salernitana, gli ospiti in vantaggio grazie a Vignaroli, pareggio di “fosforo” Bernini e nel secondo tempo, uno dei momenti di calcio più belli della mia vita. Metà della ripresa, io e i miei amici siamo in gradinata, tante birre e tante risate. Si canta e si fuma nervosamente. Un cross, meraviglioso, lento, curvo di Bratislav Zivkovic (altro giocatore molotov). Lo vedo, lo sento. Ricordo di essermi alzato in punta di piedi perché lo sapevo. Flachi guarda la palla e prende la mira. Il resto è tutta una corsa affannata di ricordi ed un urlo di gioia. Le punte dei miei piedi sollevate dal seggiolino come se stessi volando, proprio come sapeva fare Francesco con le sue rovesciate. L’abbraccio con Simone e Alessandro e le urla che dicevano “Ma che gol ha fatto?”. Abbracciato ai miei amici, con gli occhi un po’ lucidi, guardavo il nostro numero 10 consapevole del fatto che ne avrei visti ancora tanti, ma lui sarebbe stato per sempre il mio. Il nostro. E’ una questione generazionale, una questione da stadio. Una questione di emozioni.

Mi piacerebbe che, dopo aver letto il pezzo, ognuno di voi possa lasciare un piccolo commento sul proprio numero 10: quello che avete amato di più, quello che vi ha fatto piangere di gioia, l’unico che possa indossare la maglia più pesante.

 

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Francesco Salvi
Da 35 anni appassionato di gesta sportive a 360°, fin da bambino ho praticato diversi sport, ma con scarsi risultati: calcio a livello agonistico, tennis, sci e l’odiatissimo nuoto. Il mio sangue è al 50% genovese, al 10% marchigiano e al 40% sampdoriano. Ho un debole per il divano di casa mia dal quale seguo indifferentemente qualsiasi competizione sportiva venga trasmessa in tv. Anche perché dal divano: “questo lo facevo anch’ io”. Sportivamente vorrei possedere: l’eleganza di Federer, la follia geniale di Maradona, il fisico di Parisse, la potenza di Tomba, l’agilità di Pantani, il romanticismo di Baggio e la classe di Mancini. Ma è impossibile, quindi rimango seduto.
Francesco Salvi

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2 commenti

  1. Luca

    Non hai visto e vissuto il miglior numero 10 della nostra storia rispondente al nome di Mancini ma con Flachi sei comunque caduto in piedi!

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