Follia fisica e mentale

Non è la prima volta che lo racconto, ma io una mattina del ‘99 seduto vicino alla finestra della mia classe ho visto Pantani: aveva una Bianchi rossa e i suoi gregari a ruota, girava verso destra e affrontava la Bocchetta.

Il passo della Bocchetta è una salita lunga 8km con punte di pendenza del 14%, in parole povere, roba da scalatori: Stelvio e Marmolada ti lavorano ai fianchi, lo Zoncolan sfida l’equilibrio come il Mortirolo. La Bocchetta ti prende a pugni dall’inizio alla fine perché ti costringe a spingere quei rapporti fetenti, come il 21, che non smettono mai di dilaniarti i polpacci e toglierti il fiato. Si arriva in cima trafelati e ci si lancia verso i Molini a 80 all’ora.

In cima al Passo della Bocchetta si trova una stele che riporta l’albo d’oro del Giro dell’Appennino insieme al ricordo di Fausto Coppi e dell’organizzatore Luigi Ghiglione

Follia fisica e mentale, perfetta per Pantani che quella mattina cercava il giusto feeling con quella Bianchi rossa e metteva alla frusta i suoi compagni. Bicicletta e compagni assaggiavano gli scatti che sarebbero stati leggenda mentre il direttore sportivo Martinelli si gustava la scena dall’ammiraglia: dieci anni più tardi mi confermò che non era stata un’allucinazione e mi raccontò che il Pirata rispettava la Bocchetta a tal punto da attraversare la bassa padana da est a ovest e venire fino qua per sentire le sue voci.

Il Giro dell’Appennino da un secolo su per giù scrive la sua storia lungo i tornanti di questa salita, alla ricerca di una sofferenza che riduce il gruppo dei partenti a poche dozzine esaltando quelli che sono stati e saranno i grandi campioni del ciclismo. Coppi, Gimondi, Moser e poi Indurain, Pantani ovviamente e poi Nibali e Froome. Baronchelli ha vinto sei volte di fila. Record.

Il 24 giugno la storia cambierà, o meglio, prenderà una deviazione verso un’altra sofferenza: l’Appennino ricorda i 70 anni dall’eccidio della Benedicta passando da Bosio dopo aver affrontato il Turchino e prima di affrontare la Bocchetta dall’inedito versante di Cravasco. Tre bagni di sangue, e non parliamo di sport: c’era la seconda guerra mondiale e c’erano delle persone che non hanno abbassato la testa neppure di fronte ai fucili dei nazisti. Lungo le salite di questa edizione hanno sacrificato la loro vita più di 200 partigiani.

L’edizione 2014 dell’Appenino scalerà per la prima volta il Passo della Bocchetta dal versante di Cravasco: leggermente più semplice del versante classico, può rendere la corsa ancora più imprevedibile.

E’ la prima volta che lo racconto, ma io una mattina del ’99 sempre vicino alla finestra della mia classe ho conosciuto Franco Diodati: stretto ai suoi Compagni, è andato a morire a Cravasco.

Cravasco è un buco di paese lungo una strada parallela che porta alla Bocchetta, in parole povere, roba da imboscate: il 22 aprile del ’45 un manipolo di partigiani tese una trappola a dieci tedeschi e li uccise vicino al cimitero. Il 23 aprile del ’45 un manipolo di tedeschi prelevò una ventina di partigiani e ne uccise 17, sempre vicino al cimitero.
Due dei venti riuscirono a fuggire lungo il tragitto,  gli altri salirono verso Cravasco portando in spalla il mutilato Quartini, con il desiderio di morire insieme.

Follia fisica e mentale, da parte dei tedeschi che quella mattina cercavano vendetta e mettevano al muro i partigiani. Quartini e compagni assaggiavano il sangue che li avrebbe consegnati più alla triste storia che alla leggenda mentre Diodati osservava la scena sotto ai loro corpi: molti anni più tardi ci confermò che non era stata un’allucinazione e ci raccontò che era stato ferito ma non a tal punto da morire, tanto da tornare a valle per continuare la lotta e venire fino qua per far sentire la sua voce.

Il ricordo degli eroi che hanno perso la vita a Cravasco.

Genova non dimentica la sua storia e nelle classi elementari delle sue valli più montane i racconti dei partigiani non ci sono mai mancati: è bello poter pensare che settant’anni più tardi si possano raccontare le storie dei ciclisti. A volte sono drammatiche pure quelle, perché la cattiveria dell’uomo non se l’è portata via il 25 Aprile, tuttavia è un privilegio raccontare le storie di chi soffre per passione e poter vedere in cima all’appennino un traguardo e non una trincea. E’ per questo che ci serve la memoria, dell’una e dell’altra storia: perché finché le storie non avranno un lieto fine ci sarà qualcosa da imparare.

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Davide Podesta
Nell’agosto 1997 ho acceso la tv ed invece dei cartoni ho trovato la Classica di San Sebastian. Da quel giorno è stato solo ciclismo, pedalato, gareggiato e raccontato ma soprattutto vissuto. Per me non è metafora di vita, è l’essenza: un amore incondizionato e puro, critico e consapevole ma neppur minimamente deteriorabile. Se leggo la Gazzetta in un bar lascio aperta la pagina del ciclismo affinché qualcuno la legga, se la discussione finisce sull’argomento state certi che metterò il cuore sul tavolo. Trasgredisco solo per le Olimpiadi, sia estive che invernali e detesto ogni critica che non sia costruttiva, soprattutto quelle di chi non accetta il passare degli anni. Suoi e degli altri.
Davide Podesta

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