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Il cammino della memoria

Camminare è un verbo intransitivo, che deriva dal sostantivo cammino, a sua volta proveniente dal latino camminus, che trae origine da un termine celtico, probabilmente gallico, che significava l’andare a piedi da un punto a un altro. E’ un vocabolo che implica l’idea di spostamento, di movimento, azione. Ed è anche il gesto sportivo più quotidiano, più frequente e naturale che la maggior parte degli esseri umani possa compiere. Le sue accezioni sono infinite, ma il significato principale, a prescindere dal fine per cui lo si esegue, resta quello di spostamento a piedi, di un atto che si esaurisce direttamente nel soggetto che lo compie. Intransitivo, per l’appunto. Proprio il camminare, o meglio, un cammino, sono l’oggetto di queste righe, sullo sfondo dei sentieri della Val Gesso, lungo quei percorsi che spesso ospitano escursionisti, camminatori e trail-runner. Sentieri di confine che, tramite il colle delle Finestre e il colle Ciriegia (a oltre 2400 metri di altitudine), conducono in Francia. Dipartimento delle Alpi Marittime, per la precisione. Porzione di monti che, nel novembre del 1942, a seguito dell’Operazione Anton, cadde sotto il controllo della IV armata del Regio Esercito italiano.

Vennero occupati diversi comuni, tra cui Saint-Martin-Vésubie (in occitano Sant Martin de Lantosca), dove, tra il 1942 e 43, trovarono riparo un migliaio di ebrei non francesi in fuga dalla persecuzione nazista. In questi territori, infatti, nonostante l’adozione nel 1938 di una legislazione razziale, l’Italia manifestò il desiderio di mantenere una certa autonomia dall’alleato tedesco. Mussolini stesso condannò tale atteggiamento, definendo l’umanitarismo sentimentale dei suoi generali fuori luogo e non consono ai tempi duri di allora. Ciò nonostante fra il dicembre 1942 e settembre 1943, gli italiani si opposero alla decisione di imporre la J di Juif sui documenti, non consegnarono ai tedeschi gli ebrei delle proprie aree di competenza e istituirono residenze coatte in cui far vivere “liberamente” i profughi, facendo segnalare la loro presenza 2 volte al giorno. Questo sistema assicurò una precaria sicurezza a diverse migliaia di ebrei, rifugiati nel sud della Francia e braccati dalla persecuzione nazista. Una di queste località di residenza era dislocata proprio nel paese di Saint-Martin Vésubie, che finì per accogliere oltre mille ebrei di varie nazionalità, sopravvissuti in relativa tranquillità fino alla data dell’armistizio.
Tutto poi cambiò.

Con il disgregamento dei reparti della IV armata, tra l’8 e il 13 settembre 1943, circa 800 ebrei scesero in Val Gesso, a San Giacomo di Entraque e alle Terme di Valdieri. Erano polacchi, tedeschi, ungheresi, austriaci, slovacchi, rumeni, russi, greci, turchi, croati, belgi e francesi: uomini, donne, bambini e anziani che avevano trovato rifugio dalla persecuzione antisemita nella zona di occupazione italiana in Francia. Mal equipaggiati e con risorse fisiche limitate, affrontarono la lunga traversata alpina e, attraverso il colle delle Finestre e il Colle Ciriegia, giunsero in Italia. Il grosso si mosse da Saint Martin non appena si diffuse la voce dell’armistizio, altri in piccoli gruppi nei giorni successivi: tutti lasciarono le residenze coatte con la convinzione che scendere in Italia, al seguito dell’esercito italiano, fosse la scelta migliore per trovare riparo dalle persecuzioni razziali. Purtroppo non fu così.
Il 12 settembre, infatti, Cuneo venne occupata dai tedeschi e il 18 un bando emanato dal comando tedesco ordinò l’arresto immediato di tutti gli stranieri che si trovassero in zona. Vennero arrestati 349 ebrei e rinchiusi nella ex caserma degli alpini di Borgo San Dalmazzo, trasformata in campo di concentramento e gestita dalle autorità amministrative e di polizia locali subordinate ai tedeschi. Italiani, quindi, volenterosi carnefici che anche nei giorni successivi aiutarono l’esercito tedesco ad effettuare arresti. Il 21 novembre, 328 ebrei stranieri furono deportati ad Auschwitz dal campo e dall’ospedale in cui erano ricoverati. Sopravviveranno solo in 18. Tra il 9 dicembre 1943 e il 15 febbraio 1944, infine, verranno internati altri 26 ebrei provenienti dalla zona di Saluzzo, deportati poi nei campi di sterminio di Auschwitz e Mauthausen.

Degli 800 ebrei che avevano svalicato le Alpi, si salvò dalla deportazione solo chi al termine della traversata trovò le energie fisiche per continuare il cammino. Per raggiungere la Svizzera o, passando per Genova e Firenze, raggiungere le zone liberate dagli Alleati. Si salvarono anche coloro che non si rassegnarono all’arresto, che si nascosero nei boschi che separano la Val Gesso dalla Valle Stura. Qui trovarono l’aiuto della popolazione locale e per molti la salvezza fu rappresentata dall’accoglienza offerta dalle famiglie di Borgo San Dalmazzo e delle vallate circostanti, sollecitate dai parroci don Raimondo Viale e don Francesco Brondello. Altri, infine, si unirono alle formazioni partigiane.

Oggi, l’Associazione Biandrata, la prima domenica di settembre, rievoca ogni anno la storica traversata dei mille perseguitati che cercarono scampo in Italia attraverso i passi alpini.
I nomi di chi venne deportato stanno tutti in fila come allora, sul piazzale che li vide partire per l’ultimo viaggio. I nomi di chi tornò, invece, sono in piedi, a testimoniare la forza di interpellare passanti e visitatori con una testimonianza vivente.

Così è scritto: al memoriale di Borgo San Dalmazzo.

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Memoriale della deportazione di Borgo San Dalmazzo

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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