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Goalkeeper, quando il portiere è custode

Ho sempre pensato che per essere un buon portiere, bisogna saper apprezzare la solitudine. E non è il solito refrain sul solipsismo dell’ultimo uomo (oddio ho scritto solipsismo!), ma proprio una condizione imprescindibile. Oggi, a distanza di tempo, continuo ad esserne sempre più convinto. Non solo, ma credo che la solitudine del portiere sia una condizione privilegiata: è l’unico individuo sul campo ad essere contemporaneamente giocatore e spettatore, l’unico a vedere l’azione nascere, crescere e spegnersi. E’ il solo a poter avere una visione veramente sintetica del gioco: abbastanza vicino per capirne la logica, sufficientemente distante per osservarlo con occhi terzi.
Ma soprattutto è l’unico ad avere l’ultima parola.

Il suo compito, infatti, è quello di operare in senso opposto a quello che è il fine ultimo del calcio: il goal. Seguendo questa logica, è l’esatta nemesi del gioco.
Non è tutta farina del mio sacco. A questo proposito andate sull’internèt e leggetevi un bellissimo articolo apparso tempo fa su Linkiesta. Che in due righe sintetizzo così:

il portiere è l’unico partecipante il cui scopo è quello di impedire il raggiungimento dell’obiettivo finale e unico. È, simbolicamente, il distruttore di raccolti, il portatore di carestia, la nemesi del gioco all’interno del gioco stesso”.

Rimanendo più “terra a terra”, mi viene in mente che la parola inglese per indicare il ruolo è goalkeeper. Letteralmente: “custode del goal” o più liberamente “custode di meta”. Parafrasando? Ultima difesa tra l’obiettivo finale e chi tende ad esso (sognavo di scrivere ‘ultimo baluardo’, ma vi ho risparmiato). Forse, però, sono i cugini francesi ad utilizzare la perifrasi più azzeccata: gardien de but, ovvero “guardiano di gol” (o di meta). Ma dato che stiamo parlando di fùtbol e non di filologia romanza, la faccio pratica. Se provo a googlare nella mia memoria calcistica le parole “portiere” e “custode”, il primo risultato è sicuramente Garella.

Al buon Claudio l’han sempre menata perchè il suo stile era particolare, non proprio elegante e spesso parava con i piedi.
Però voglio vedere chi riesce a fare una cosa del genere.

Garella, campione d’Italia con Verona e Napoli (è bene ricordarlo), era abbastanza umile e intelligente da comprendere il senso del suo ruolo. Cura, difesa, responsabilità e protezione della sua meta in ogni modo possibile: “Sono stato un portiere anomalo, nessun allenatore ha cercato di cambiarmi. Istinto? Non solo, avevo un mio codice. Ricordo ciò che disse Italo Allodi, il manager che mi portò al Napoli: “L’importante è parare, non conta come“.

Parlando di custodi, le prime immagini che mi vengono in mente sono tutte attinenti a luoghi solitari, isolati o disabitati. Il background del custode è quindi la solitudine, spesso cercata, inseguita o voluta. Ed è questo il terreno su cui si muove il grande portiere. Osserva, registra, indaga e si interroga, ma sa riconoscere all’istante il momento migliore per un’uscita. Sa esattamente dove si trova senza guardare i pali, sente la posizione sulla pelle, cerca sempre il miglior spiraglio per vedere la palla e, soprattutto, non ha paura di sbagliare. Perchè il vero avversario non è l’attaccante, ma se stesso. Sa guardare negli occhi la paura e l’insicurezza, le porta con sè, ma solo quel tanto che basta per diventare esattamente l’opposto: reattivo, puntuale, sicuro e anche un pò spericolato. Volete farvi un’idea? Cercate Jeremie Janot su Youtube. E’ l’attuale portiere del Le Mans e detiene il record d’imbattibilità nella Ligue 1 con 1534 minuti senza subire gol.

E arriviamo ad uno dei luoghi comuni più diffusi sul ruolo: la pazzia.
Non è vero che “tutti i portieri sono un pò pazzi”, è più giusto dire che chi vede le cose da un altro punto di vista preferisce giocare tra i pali. Il portiere accetta le regole del gioco, scende in campo con la squadra, lotta per arrivare alla vittoria assieme ai compagni, ma lo fa a modo suo. Mentre 10 persone si sbattono per metterla dentro, lui è l’unico che gioca per non farla entrare. Se para assolve al suo compito, se non lo fa prende goal tutta la squadra. In questa ingiusta sproporzione sta il metro della sua solitudine (e della sua presunta “follia”). E’ un individualista che opera a favore del collettivo, un solitario incompreso che si muove sempre a beneficio del gruppo, un ribelle che opera per mantenere inalterato lo status quo della sua porta. E’ un corto-circuito, lo so, non a caso gente come Camus o Che Guevara giocava tra i pali!
E per rimanere in tema pazzia, guardatevi Grobbelaar e le sue gambe “a spaghetti” nella finale di Coppa Campioni dell’84:

Infine arriviamo all’eleganza e concedetemi un momento aulico. Nel 1819 il poeta inglese John Keats, in un passo dell’Ode su un urna greca, scriveva: True is beauty, beauty is true. Ho pensato di sostiture i termini di questa equazione con le parole “eleganza” ed “efficacia”. E se Garella è la dimostrazione di come non sempre l’efficacia sia elegante, Michel Preud’homme, invece, è la prova di come l’eleganza sia sempre efficace: immaginate l’agilità del puma, unitela allo scatto letale del caimano e aggiungeteci la vista del fetonte. Ecco, se ci siete riusciti siete comunque distanti.

Non c’è molto altro da aggiungere.
Concluderei, però, con aneddoto personale. Per 2 anni mi sono allenato con un preparatore dei portieri favoloso. Uno dei migliori a Genova negli anni ’90. Non so se lo fosse veramente, ma era una gran brava persona. Questo è certo. Per migliorare riflessi e reattività si metteva a 1 metro e lanciava il pallone con forza, urlando: “tàchila”. In questo genovesismo sta tutto il senso di questo pezzo. La traduzione è difficile da rendere, in italiano potrebbe essere “prendila”, “attaccala”, “braccala”. Ma il vero significato di “tàchila” lo può intuire solo chi è in volo verso il pallone. Mentre staccavo i piedi dalla terra battuta, l’idea era quella di attaccare la palla nello spazio, fermarne l’inerzia, bloccarla prima che entrasse in porta. Insomma, un appuntamento in volo tra me e lei, per custodire inalterata la mia meta. E quando lo si faceva con eleganza, il mister fermava l’allenamento, si avvicinava e dava la mano.
Franco Gassi era così, se facevi una bella parata ti stringeva la mano.

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

2 commenti

  1. Luca
    Luca

    hai colto l’essenza del ruolo.. il portiere può passare da eroe a responsabile della sconfitta o viceversa nell’arco di pochi minuti all’interno della stessa partita.. un ruolo “ingrato” mi sentirei di dire.. strepitoso il richiamo a “Garellik”.. bravo Fra!

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