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Da Meisl a Sarri

Il guaio di farsi una cultura è che il processo richiede molto tempo; ti brucia la parte migliore della vita, e quando hai finito l’unica cosa che sai è che ti sarebbe convenuto di più fare il banchiere”.
Così scriveva Philip Kindred Dick ne La trasmigrazione di Archer, romanziere anticipatore del movimento avantpop della seconda metà del Novecento. Per tutti, il padre di Blade Runner.

Si può essere più o meno d’accordo. Vero è, però, che qualche anno prima e qualche anno dopo due personaggi agli antipodi – ma simili in vari aspetti – avrebbero fatto venir voglia di stringere la mano allo scrittore di Chicago. Si perché due ex banchieri, entrambi immigrati nei grandi centri passando dalla provincia, hanno lasciato la loro attività di impiegati bancari per intraprendere un salto nel vuoto: allenare, ossia disegnare e progettare calcio. Ma soprattutto, hanno trasformato la parte migliore della loro vita nella loro passione.

Il primo dei due era figlio di commercianti, nato nell’allora Impero Austro-ungarico, precisamente a Moleschau (l’odierna Malechov, Repubblica Ceca) nel 1881. Il suo nome era Hugo Meisl. I genitori decisero che per la sua formazione avrebbe dovuto spostarsi a Vienna e apprendere – nel posto ideale – l’arte della contabilità. Tutti gli austriaci, ancora oggi, benedicono questa scelta. Si, perché inizialmente il giovane Hugo iniziò con una certa rendita una collaborazione nella Landerbank, salvo poi avvicinarsi al calcio. Dapprima, giocò nelle file del Viener Cricket and Football Club, per poco e per svago. Poi a 24 anni decise che gli veniva meglio stare fuori e guardarle le partite, invece che giocare. Iniziò così a fare l’arbitro e alla fine gli venne offerto un posto come dirigente della Österreichischer Fußball-Bund, ossia la Federcalcio austriaca, che lui stesso aveva contribuito a fondare qualche anno prima.
Hugo, però, era un personaggio affamato. Parlava perfettamente cinque lingue, grazie ai viaggi di lavoro per la OFB. E voleva di più: voleva rimanere nella storia. Alla fine decise di lasciare il lavoro di contabile alla Landerbank per accettare la panchina della National Mannschaft. Un sì finché morte non ci separi: avrebbe infatti guidato l’Austria dal 1912 fino al 1937, quando improvvisamente lasciò la dimensione terrena per entrare nel mito. Nel mezzo 25 anni di genio calcistico, di meravigliosa tattica tra il sistema britannico di Albert Chapman, e il metodo italianissimo di Vittorio Pozzo, nemico amatissimo.

Meisl usava la saggezza del chimico, disponendo i suoi giocatori secondo un antesignano del 4-3-3. Due difensori veloci, uno addetto al centravanti avversario e l’altro libero dalle marcature ma pronto a chiudere tutti i buchi; due mediani sulle fasce con licenza di creare superiorità a centrocampo; e in mezzo il fulcro di tutto, il nirvana del suo gioco: il centromediano metodista. Nella sua Austria, fu sempre Josef Smistik: chi giocava lì decideva dove, come e a che velocità la palla dovesse andare. L’invenzione vera e propria, però, fu quella delle mezze ali. Sostanzialmente degli attaccanti aggiunti, pronti a partire come treni in contropiede, ma capaci anche di innescare le due ali d’attacco e ripiegare in caso di necessità; poi le due ali, libere e larghe, che volavano tanto per citare Gigi Delneri. Infine, il centravanti. La fine dell’imbuto, la cassa da cui il gioco doveva sempre passare per ultimo: Sindelar e Bican, così come Schall, furono degli interpreti sopraffini, con i primi due, in verità, destinati più ad essere mezzali.

Non vi ricorda qualcuno?

Questa era la squadra di Meisl e il suo karma: contropiedi fulminanti e aperture improvvise, sostituendo i lanci lunghi con passaggi brevi e veloci, difesa alta per togliere campo all’avversario, gran ritmo e atletismo. Fu il primo ad arrivarci. Tanto per dirne una, tutte le nazionali dell’ex Impero austro-ungarico, inizieranno ad utilizzare il suo Metodo: Ungheria, Austria e Cecoslovacchia saranno tra le più forti d’Europa per oltre quarant’anni. In seguito, gente come Ernst Happel e Rinus Michels presero da quell’Austria e dal suo mister le mosse per il loro “gioco totale”, con il quale fecero benissimo soprattutto sulla panchina dell’Olanda.
Come avvenne il cambiamento? Semplicemente. Mentre Meisl giocava a Vienna, infatti, incontrò il messia del gioco Jimmy Hogan, un inglese giramondo che insegnava calcio in giro per l’Europa. Quando si incontrarono, fu subito amore sportivo, tanto che ai Mondiali del 1934 l’inglese fece da assistente a Meisl. Tutto nacque in una caffetteria di Vienna, la Wiener Ring, dove Hugo, rispondendo alle critiche dei giornalisti che si trovavano lì, spiegò il suo intento di gioco. Alla prima amichevole, contro la Scozia, vinse 5-0. Per quasi 2 anni batterono chiunque, segnando 49 gol in quattordici partite, vincendo 12 partite e pareggiandone solo 2. Ai Mondiali del ’34 arrivarono come una delle nazionali favorite per la vittoria finale, fermandosi ingiustamente alla semifinale. Vinse l’Italia, in un San Siro stracolmo, grazie alle sviste dell’arbitro svedese Eklind e dei suoi collaboratori. Guaita portò gli azzurri in finale e, così, non fu resa giustizia ad una delle squadre più belle della storia che, qualcosa, per forza di cose, vinse. Fu una volta medaglia d’argento alle Olimpiadi di Berlino ’36, vittoria una volta nella Coppa Internazionale, l’antesignana dell’Europeo, a cui partecipavano le migliori nazionali dell’Europa Centrale, e sempre in questa competizione arrivò seconda in altre due edizioni. Ah, dimenticavo: sia la Coppa Internazionale che la Coppa dell’Europa Centrale – stessa idea, solo per squadre di club e quindi antesignana della Coppa Campioni – furono idee originali di Hugo Weisl. Pensò che se le squadre di tutte le varie nazioni si fossero affrontate al di là dei Mondiali, il calcio si sarebbe evoluto. Vedeva anni luce davanti a sé. Non vide – grazie al cielo mi permetto di dire – l’Austria cadere sotto la follia di Hitler e del Nazismo. Hugo Meisl si spense a 56 anni nel 1937. Peccato, un anno dopo si sarebbe sicuramente preso la rivincita sull’Italia sul suo amico/nemico Vittorio Pozzo. Pare che il ct italiano glielo avesse detto già a Milano nel ’34 e Hugo, uomo di carattere ma modesto, avesse risposto dicendo che non ci sarebbe stato. Quasi a presagire il futuro. Vedeva oltre e più velocemente degli altri.

Se un uomo era così avanti, non dovrebbe meravigliare l’analogia con il metodo Sarri: il personaggio è conosciuto e anche il suo sistema di gioco. Smistik disegnava gioco con la precisione e l’eleganza dei vari Valdifiori o Jorginho; Gschweidl a destra aveva gli stessi compiti dell’odierno Callejon (forse più libero da compiti difensivi); Gall e Braun erano gli Allan e Hamsik degli anni Trenta: uno più difensivo e di gran corsa, l’altro più elegante e attaccante. Cisar e Sesta, detto “Lama”, erano come Albiol e Koulibaly, bravi a marcare, a chiamare la linea difensiva e a all’occorrenza a salire; Sindelar, detto “Cartavelina”, era l’alter ego di Gonzalo Higuain: punti cardine delle squadre.
Questo è l’incredibile. Come incredibile è il fatto che due uomini di conti e contanti siano diventati due maestri del gioco.

Come è possibile?

Forse dalla sicurezza di un lavoro come quello bancario o dalla responsabilità nel maneggiare soldi dei risparmiatori? Attività che allenano proprio la capacità di fare delle scelte, sia strategiche che in termini di organico. O La cultura e l’intelligenza di entrambi, figlie del “mai dimenticare da dove si viene”, ma cercare sempre di migliorarsi? O, forse, esiste un’unica spiegazione. La più banale e semplice: l’amore per lo sport e per il calcio.

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Paolo Paolillo

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