Il serbo muto

La verità è semplice: non c’è nessun segreto. Per giocare a calcio non serve nulla. Ogni spazio può essere un campo, ogni straccio un pallone, 2 pietre una porta. Le partite più divertenti le ho giocate in piazza, sull’asfalto, tra amici, col solleone o in mezzo alla neve, con maglie/giacche indistinguibili, senza porte e con palloni dalle traiettorie improbabili. Qualcuno è arrivato a giocare in serie B, ma la maggior parte ha continuato a farlo per passione. Eravamo giovani, è vero, ma continuo a chiedermi se il divertimento non possa tornare ad essere la parola-chiave del calcio (e dello sport in generale). Del resto, l’esperimento calcistico più innovativo del secolo scorso, il Calcio Totale, è nato proprio da un gruppo di giovani spensierati, che semplicemente aveva voglia di giocare a pallone. E anche la storia di Velibor Vasovic, difensore dell’Ajax di Michels, inizia proprio da uno di quei campi inventati, di pochi metri quadrati, fatto di fango e fieno, quando un sintetico era semplicemente tecnologia utopistica.

Se si nasce a Pozarevac, città della Serbia a 70 km da Belgrado, giocare a calcio è come andare in chiesa la domenica: 6 club professionistici, una miriade di squadre per ogni cittadina di campagna e tornei interni da sempre motivo di divertimento. In pratica, un rito. Al termine della seconda guerra mondiale ogni cosa avesse una forma tonda era sufficiente per essere presa a calci, e giocare in 7 in una stalla, dribblando avversari con una vecchia pallina da tennis, fu certamente un ottima educazione calcistica per il futuro capitano dell’Ajax. E poi la famiglia, originaria del Montenegro: Zivojin Vasovic, il padre, era un impiegato del fisco che durante la guerra venne incarcerato dai tedeschi, mentre la madre, Jelka Laušević, curava la casa e i 7 fratelli di Velibor (che era il più piccolo): 3 sorelle e 4 maschi (che negli anni dell’occupazione si unirono al movimento di resistenza).

E poi il calcio, dapprima giocato per divertimento con i fratelli, e poi praticato per professione per circa 11 anni: Partizan, Stella Rossa, Ajax e ovviamente nazionale jugoslava. Quando concluderà  la carriera, Vasovic avrà all’attivo 3 finali di Coppa dei Campioni, giocate con 2 squadre differenti e 2 goal segnati: ironia della sorte vincerà l’unica finale in cui non segnò. E proprio la finale del 1966, quando il Partizan venne battuto dal Real Madrid, fu l’occasione per essere notato dall’Ajax. I lancieri di Amsterdam avevano appena conquistato l’Eredivise 65/66 e, dopo il trionfo in campionato, Rinus Michels aveva 2 certezze: allenare alcuni tra i più talentuosi attaccanti del calcio mondiale e non possedere una difesa all’altezza. Per lo meno, non in ambito europeo. Non che Tonnie Pronk o Frits Soutekouw non fossero buoni giocatori, ma difettavano in personalità: l’Ajax era in cerca di qualcuno che non solo potesse guidare il reparto arretrato, ma che fosse anche capace di mettere in campo sicurezza e mentalità vincente. Il giocatore serbo fu da subito la prima scelta, vuoi per la tendenza a proporsi in avanti palla al piede, ma soprattutto perché possedeva un talento sconosciuto dalle parti di Amsterdam: l’arte della difesa. Coraggio, voglia di vincere, velocità, cattiveria agonistica, nessuna di queste caratteristiche interessava particolarmente agli olandesi, che invece prediligevano tecnica e tattica. E proprio per queste attitudini, invece, Velibor venne scelto. O come spesso ripeteva Michels, perché Vasovic era l’unico a non fare domande.

Il serbo arrivò in Olanda proprio nel mezzo di una vera e propria rivoluzione culturale, che in qualche modo influenzò anche il calcio. I Provos, vestiti di bianco, erano un movimento di ispirazione anarchica che guardavano al gioco e al divertimento come la chiave per costruire un mondo migliore: Cruyff, a detta di molti, ne personificò filosofia e atteggiamento. Dotato di una resistenza infinita, politicamente schierato (a differenza di Vasovic), credeva che gioco e divertimento avrebbero rivoluzionato il calcio. Tutti gli altri, invece, si accontentavano di vincere. Pochi lo ricordano, ma prima che l’Ajax fosse l’Ajax il calcio olandese aveva vinto pochissimi trofei internazionali. Furono Michels, Vasovic e Cruyff a cambiare le cose. E questo perché quella squadra fu un collettivo. Non esisteva attacco o difesa, l’importante era saper essere creativi con lo spazio. Il “comunista” Cruyff era il genio: appariva nel momento in cui c’era più bisogno, guidava il gioco, istruiva i compagni e prevedeva tutti gli spostamenti con 3 mosse d’anticipo. Sebbene ogni suo movimento fosse pensato per dare forma allo spazio, nel calcio ultra offensivo di Michels, dove ogni giocatore cambiava continuamente posizione, la trama dell’azione partiva però dalla difesa. Difficilmente il portiere rinviava a centrocampo, quasi sempre, invece, impostava passando la palla ad un difensore. E da li la squadra si muoveva per costruire.
Vasovic era quasi sempre quel difensore.

Nel calcio totale giocava da ultimo di difesa. Da libero. In pratica era l’architetto dell’atteggiamento aggressivo del reparto, guidava i compagni e orchestrava i movimenti per imporre il fuorigioco. Non solo, ma fece da chioccia alla successiva generazione di difensori olandesi: giocatori del calibro di Barry Hulshoff e Ruud Krol molto devono all’apprendistato trascorso con lui. E forse, proprio grazie a Vasovic, i lancieri di Amsterdam divennero una squadra mitica. Fu fondamentale nella trasformazione dell’Ajax: da squadra che giocava splendidamente a gruppo che ha vinto incredibilmente. E al contrario di quello che pensano molti romantici calciofili, in quell’Ajax c’era molto più acciaio di quanto si possa immaginare. Guardato come fratello maggiore dal resto della squadra (anche se aveva solo 27 anni), Vasovic divenne capitano e il primo giocatore straniero dell’Ajax a vincere in campo internazionale con quella fascia al braccio.

Già, la Coppa dei Campioni. Il sogno di Vasco, come era soprannominato dai compagni di squadra. Una chimera, la nemesi di Velibor. E forse, proprio per questo, fra tutti i suoi compagni fu lui il più determinato nel perseguire il trionfo continentale. Le vittorie in Eredivise non erano sufficienti. Manco a dirlo: una questione di spazi.
Vasovic divenne campione d’Europa nel 1971, battendo in finale il Panathinaikos per 2 a 0.
Non fece goal.
Nella finale persa contro il Milan, due anni prima, segnò.
Ma perse, come nel ’66.
Nel ’71 rimase muto e vinse.
Ironia della sorte.

A causa dell’asma e di uno strappo alla coscia, chiuderà la carriera a 32 anni.
Morirà a Belgrado il 4 marzo 2002.
Vasco aveva intelligenza calcistica.

Fonti:

L’Ajax non difende mai di Jim Shepard
Velibor Vasovic: The Yugoslav who completed Michels’ Total Football dream di Priya Ramesh 

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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