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L’Atalanta di Strömberg e della Tamoil. Parte I: L’eco di due rivoluzioni

Un titolo che inganna, ma non troppo.
Cosa conta di più: la squadra, il giocatore o lo sponsor? E quanto uno sponsor si identifica con la squadra? Un piccolo viaggio nel calcio italiano (e non) per scoprirlo.
Leggi la parte II: L’Atalanta di Stromberg e della Tamoil – Discesa agli inferi

La Seconda Rivoluzione scoppiò nel 1995, e nulla fu più come prima. O meglio, ognuno fu un po’ più uguale a se stesso.
Fu un astuto gioco commerciale, quando gli sponsor tecnici ottennero dalla Lega Calcio di stampare, tra le scapole dei calciatori, il loro cognome, sopra un numero che un tempo indicava il ruolo. Una rivoluzione onomastica a discapito di un’identità tattica. E non solo: fu il primato dell’individuo sul club. Il tifoso non avrebbe più comprato la casacca numero 10 di Totti, ma la divisa di Totti o, attraverso il “transfert” dell’acquisto, Totti stesso.
L’identità nell’epoca della sua riproducibilità tecnica!

Un business da capogiro, se pensiamo che l’Adidas si è impegnata in un contratto decennale da 940 milioni di euro che legherà, a partire dalla stagione 2015/16, il proprio marchio alle casacche del Manchester Utd (che abbandonerà la Nike).
Operazioni del genere hanno, ovviamente, hanno un rientro calcolato.
Diamo due numeri: il Real Madrid, dopo pochi giorni dall’ufficialità dell’acquisto di James Rodriguiez (operazione da 80 milioni di euro), ha venduto 350.000 camisetas col nome del campione colombiano, con un incasso di 33 milioni di euro. E parliamo di una squadra i cui nomi altisonanti non mancano.
Aggiungi che, oltre al via vai di campioni, ogni anno le maglie delle squadre cambiano design (oltre all’aggiungersi di terze divise sempre più fantasiose); aggiungi che molti tifosi non saranno disposti a lasciarsi invecchiare addosso la stinta e un po’ sformata vecchia maglia, e il guadagno è assicurato.

Ma questa fu la Seconda Rivoluzione.

La Prima Rivoluzione non la ricordo (chi nasce dopo una rivoluzione spesso si trova a vivere le cose così come sono, senza troppi turbamenti), quel che so è che scoppiò nella stagione calcistica della Penisola 1981/82. Ma fu un susseguirsi di cavalli di Troia che durarono anni. Nella mia mente-anni-‘90 il problema s’è posto in questi termini: ma era l’Atalanta di Stromberg o della Tamoil? Cosa identificava di più quella squadra? Pormi il problema mi ha fatto sentire vittima della Rivoluzione.

Come siamo arrivati a questo, a identificare la Sampdoria dello scudetto con la ERG?

La pubblicità arrivò nel calcio come un fiume in piena. E, come l’acqua, un varco prima o poi lo avrebbe trovato:  era solo questione di tempo.
In principio fu l’alcool e l’azienda triestina di liquori e distillati  Stock la fece da pioniere quando, già negli anni ’30, realizzò dei tabelloni destinati ai bar che segnalavano gli incontri della domenica di serie A e B accompagnati dal proprio logo. Un connubio che proseguì in radio con il programma Tutto il calcio minuto per minuto dove, per più di quarant’anni, i radioascoltatori hanno sentito aprire le trasmissioni ogni volta con lo stesso slogan: Se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con Stock 84, se ha perso consolatevi con Stock 84.

Nonostante la popolarità del calcio nostrano, non fu il pallone l’obiettivo primario: ancora negli anni ’60 nel grande calcio la pubblicità non poteva entrare. Giovanni Borghi, il gran patron della Ignis, il primo che provò a unire sport e vendita di prodotti nazional popolari, dovette puntare su basket, pugilato, ciclismo e serie calcistiche minori, tingendo di giallo ogni “suo” atleta. E fu con le due ruote che confezionò il suo capolavoro pubblicitario, “commissionando” al velocista Antonio Maspes un surplace record davanti marchio Ignis in favore di telecamere di stato: probabilmente lo spot più lungo della storia!

Nel calcio, i primi tentativi pubblicitari portarono all’escamotage dell’abbinamento: la FIGC poneva il veto sulle maglie, ma non sullo stemma societario di un club: bastava quindi affiancare il nome di un’azienda a quello del club sportivo, unendo le rispettive ragioni sociali. Precursore fu la città di Torino, già in tempo di guerra, con la Juventus Cisitalia e la Torino FIAT.
Nel secondo dopoguerra la pratica prese piede: ne nacquero fusioni come la Lanerossi Vicenza (l’abbinamento più famoso e longevo che dal 1953 proseguì fino al 1990), la Simmenthal Monza, l’OZO Mantova, il Sarom Ravenna, lo Zenit Modena e la Talmone Torino. Alla fine degli anni Cinquanta la Federazione bandì l’abbinamento che rimase possibile solo per la Lanerossi Vicenza in virtù di una convenzione speciale.
Fino agli anni Settanta l’unica strada percorribile per chi volesse unire pubblicità e pallone fu la cartellonistica e i mass media.

Ma gli anni Settanta furono anni di fermento…

Continua…

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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