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Un po’ più in là sulla destra

Mano sinistra, annunciava Louis alzando il braccio e distendendo le dita: imperfetta, goffa, esitante, e quindi salutare produttrice dell’incasinamento e del dubbio. Mano destra: sicura, salda, detentrice del saper fare, guida del genio umano. Con lei, controllo, metodo e logica. Attenzione, Vincent, è adesso che devi seguirmi bene: se pencoli un po’ troppo verso la mano destra, due passi in più, ecco spuntare il rigore e la certezza, li vedi? Avanti ancora un po’, altri tre passi, ed è il disastroso tracollo nella perfezione, nell’impeccabile, poi nell’infallibile e nell’implacabile. A quel punto sei soltanto un mezzo uomo che cammina tutto piegato verso destra, inconsapevole dell’alto valore dell’incasinamento, un inflessibile imbecille impermeabile alle virtù del dubbio; può capitare in modo più subdolo quanto non immagini, non crederti al sicuro, bisogna stare all’erta, hai due mani, vorrà pur dire qualcosa.

F. Vargas, Un po’ più in là sulla destra

Non appena arrivo al Rifugio Mezzalama, sento un tuono. Il sentiero spiana e mi avvicino alla costruzione in legno. Il sudore mi cola dalla fronte, dalle sopracciglia, dalla barba, per confluire in un unico getto all’altezza del mento. Questa è l’unica traccia che lascio di me sul granito. Da tre anni combatto i miei demoni e la montagna è l’unico ambiente che riesca veramente a darmi pace e serenità. Non sono un alpinista o un climber, solo un semplice camminatore che cerca di misurarsi con se stesso. Detesto il vuoto e la verticalità, ma un centimetro alla volta, ogni anno, provo a guadagnare terreno alla mia paura. Il sentiero che porta al Mezzalama non è difficile: dal Pian di Verra Superiore il percorso si inerpica deciso e in meno di 2 ore si coprono gli 800 mt di dislivello che separano dal rifugio. Solo un breve tratto è esposto, 30 metri con poca superficie calpestabile e il declivio da un lato: ostacolo che mi sono imposto di affrontare e superare, nonostante la paura mi indebolisca quadricipiti e polpacci.
Un altro tuono. Le nubi sono ancora all’orizzonte e la pioggia è prevista solo per il primo pomeriggio. La risposta me la danno una coppia di russi arrivati in cima poco prima di me, che con le dita indicano sopra la mia testa: proprio in quel momento un’altra slavina si stacca dal ghiacciaio di Verra. Stesso frastuono, stesso fragore. Non avevo mai visto una valanga: di fronte ho il massiccio del Rosa.

Pare che Ottorino Mezzalama fosse un tipo schivo, generoso e ancora oggi è considerato una leggenda dello sci-alpinismo, dato che nel giugno del 1927 compì la prima ascensione sciistica italiana al Monte Bianco. Era un profondo conoscitore dell’arco alpino e aveva un sogno: realizzare un unico itinerario sci-alpinistico, dalle Alpi Marittime fino alle Giulie. In verità era anche un tipo naif, tanto che il suo spirito solitario e la sua dedizione lo portarono a sviluppare tecniche e convinzioni del tutto personali, come il rifiuto delle pelli di foca a favore della semplice sciolinatura di tenuta. Assurdo: il precursore dello sci-alpinismo detestava le pelli. Morì nel febbraio 1931, durante la discesa dal rifugio Gino Blasi e nel ‘34 gli venne intitolata la struttura che ho di fronte: uno dei rifugi storici della Val d’Ayas, in Val d’Aosta.

Rifugio Ottorino Mezzalama, 3036 m

Un tuono ancora. Percorro il sentiero, quello che corre lungo la morena e che porta al rifugio Guide della Val d’Ayas, sorpasso il fumo della cucina e finalmente mi fermo: la vista è indescrivibile. Da sinistra a destra mi sembra di toccare il Breithorn (occidentale 4.165 m, centrale 4.160 m e orientale 4.141 m), la Roccia Nera (4075 m), il Polluce (4091 m), il Castore (4228 m) e il Lyskamm (occidentale 4481 m, orientale 4527 m). Tutto attorno è ghiaccio, quello del Felik, del grande e piccolo ghiacciaio di Verra. Mi giro e la val d’Ayas è a miei piedi, mi volto ancora verso le creste e mi chiedo dove sia. Provo a scorgerne la sagoma, la immagino, ma so che non posso vederla. E’ impossibile. Eppure la cerco lo stesso con la fantasia: un pò più in là sulla destra, dietro le vette. So che il versante in cui si mostra in tutta la sua orrenda maestosità è da Macugnaga, in Piemonte: la parete est del Monte Rosa è la più alta delle Alpi e per morfologia l’unica di tipo himalayano presente in questa catena montuosa. Per rendere l’idea: 2600 metri di dislivello per una larghezza complessiva di quasi 4 km. Ed è sovrastata dalle quattro più alte vette del massiccio: Punta Gniffetti (4.559 m), Punta Zumstein (4.538 m), Punta Dufour (4.638 m, vetta del Rosa) e Punta Nordend (4.612 mt). Un gigante, con una centenaria storia alpinistica alle spalle.

Le prime esplorazioni furono da parte di scienziati-alpinisti. Nel 1783 persino De Saussure soggiornò a Macugnaga, ma dopo pochi giorni abbandonò l’idea di salire. Troppo difficile. La vera storia alpinistica inizia soltanto nel 1787, quando il torinese Carlo Lodovico Morozzo Della Rocca si fermerà a quota 2900 metri lungo il crestone Marinelli. Per quasi 90 anni, poi, si susseguiranno diversi tentativi, finché il 22 luglio del 1872, i britannici William Martin Pendlebury, il fratello Richard Pendlebury, Charles Taylor, la guida italiana Giovanni Oberto, la guida svizzera Ferdinand Imseng e la guida austriaca Gabriel Spechtenhauser riescono nell’impresa, raggiungendo Punta Dufour dalla parete di Macugnaga lungo il canalone Marinelli. Quattro anni dopo, Luigi Brioschi, Ferdinand e Abraham Imseng salgono per la prima volta la Punta Nordend: una via più difficile della Dufour, ma più sicura. Il XIX secolo si chiuderà con l’epopea di Mathias Zurbriggen, che prima aprirà una nuova via alla Dufour e poi, con Carlo Restelli e Luigi Burgener, una nuova via sulla est della Nordend. Dalla fine dell’800, però, nasce anche la fama di parete delle valanghe: l’8 agosto 1881, infatti, perdono la vita Damiano Marinelli e le guide Ferdinand Imseng e Battista Pedranzini. E anche i primi del ‘900 sono anni di sciagure. Nel 1909 si perdono le tracce di Antonio Castelnuovo, Guglielmo Bompadre e Pietro Sommaruga, i cui corpi, dopo lunghe ricerche, non sono mai stati trovati; e nell’agosto del 1925, durante un recupero nei pressi di Capanna Regina Margherita, Casimiro Bich cade nel vuoto, spinto dalla tormenta. Il corpo è stato ritrovato solo 46 anni dopo, restituito dal ghiacciaio molto più in basso.

Gli anni ’30, invece, sono gli anni d’oro dell’alpinismo in parete. Nel ’31 i francesi Lucien Devies e Jacques Lagarde salgono per la prima volta la parete est della Gnifetti, aprendo la cosiddetta via dei Francesi (una tappa importante nell’evoluzione dell’alpinismo moderno). E negli stessi anni fa la comparsa anche un personaggio curioso, amico di Dino Buzzati, musicista e scrittore oltre che alpinista: Ettore Zapparoli. Il mantovano, in ascensione solitaria, apre una via direttissima al colle Gnifetti (1934), la via Cresta del Poeta sulla est della Nordend, dedicata all’amico Guido Rey (1937) e, anche se oggetto di dibattito, la via Canalone della solitudine sempre sulla est della Nordend (1948). Il 18 agosto 1951 scomparirà nel tentativo di ascendere a punta Zumstein, sull’ancora inviolato versante est (nel 2007 sono riemersi dal ghiacciaio alcuni resti che sono stati attribuiti a Zapparoli dall’esame del DNA). Nel dopoguerra, invece, Chiaffredo Del Custode e Stefano Zani salgono la Zumstein, l’ultima parete est ancora da realizzare, mentre negli anni ’60 vengono realizzate le prime invernali alle principali vie già aperte. Il 5 e 6 agosto 1972, cento anni dopo la prima ascensione della parete est, Paolo Borghi e Ambrogio Cremonesi aprono una nuova via sulla est di Punta Gnifetti: la via è chiamata via del Centenario. Negli anni ’80 e ’90, infine, protagonisti sono l’alpinista francese Patrick Gabarrou e lo sloveno Bojan Pockar, che nel 1992 apre la via No Pasaran (alla Gniffetti).

Il canalone Marinelli e le 4 punte della parete est del Rosa

Di nuovo un tuono. Questa volta non è una slavina, ma le nuvole che si avvicinano. Mi specchio sul ghiaccio e realizzo il motivo per cui la montagna mi rasserena: forse mi spinge davvero al confronto con me stesso, ad affrontare le mie paure, a trovare autostima o più semplicemente a mettermi alla prova. Ma tutti gli alti pensieri della retorica alpinistica non fanno per me. Non vivo nulla di tutto ciò, nessun senso di conquista, controllo o certezza. Bensì, l’esatto opposto. La montagna mi fa apprezzare la mia finitudine, l’imperfezione, l’incasinamento, l’incertezza, la goffaggine e il dubbio. I quadricipiti che mi tremano e quei 30 metri che chiunque li vedesse mi prenderebbe per il culo. Mi ha fatto capire che la paura fa parte di me, che devo conviverci e accettarla. Ma anche che non sono l’unico ad esitare e che se abbiamo due mani vorrà pur dire qualcosa.
Mio fratello mi chiama: nel paiolo la polenta è quasi pronta.

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

4 commenti

  1. Michele Lepera

    Concordo in pieno caro Francesco. La montagna in quanto natura, in quanto cammino, viaggio, fatica, ascolto (di sé e dei limiti del proprio corpo) e silenzio, insegna l’umiltà e la gioia per le cose più semplici e sincere. Se fai il furbo la paghi. Se la (e ti) rispetti, ti prende per mano e ti porta fin dove la tua soddisfazione ti fa quasi venire il magone.

    Complimenti.
    Mik!

    • Grazie MiK! ho cercato di focalizzarmi sulla paura…un aspetto su cui sto lavorando molto in questi anni. ed essendo debole, non mi piacciono gli approcci del tipo “devi vincere la tua paura”, “devi andare oltre” etc…preferisco accettarla. almeno ci sto provando :-)

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