La polvere sotto al tappeto

Ieri sono iniziati i mondiali, ma da anni i brasiliani stanno manifestando. Anche ieri non sono mancati gli scontri: decine di manifestanti si sono radunati nei pressi di una stazione della metropolitana, dietro uno striscione rosso con la scritta “Se non abbiamo diritti, non ci sarà il Mondiale“. La polizia ha caricato quando i dimostranti hanno tentato di dirigersi verso lo stadio Corinthians, dove era in programma la cerimonia inaugurale. Questo ci chiediamo oggi: fino a che punto si può ignorare la polvere sotto il tappeto?

Lo confesso: la mia ottusa superficialità e la visione quasi mistica dello sport stavano per giocarmi un brutto scherzo. Come al solito digerisco a fatica le critiche, soprattutto quelle riguardanti la gestione della cosa pubblica, quindi stavo scrivendo bello lanciato di quanto fossero belli i mondiali di calcio, di quanto dovessero essere orgogliosi i brasiliani e contenti tutti gli altri. Io ci sguazzo in questi quadretti idilliaci e spesso e volentieri mi faccio prendere per il culo, batto le mani e sorrido come un idiota: bandierina e berretto con la visiera completerebbero un magnifico quadretto. In fondo lo sport vince su tutto e con una bella vittoria sul campo di gara si mettono a posto i problemi del mondo. Se il popolo ha fame, dategli le brioches.



Sono cresciuto con il mito di Gino Bartali che vince il Tour de France del 1948 e incolla gli italiani di ambo le parti alla radio scongiurando la guerra civile ormai certa dopo l’attentato a Togliatti, mentre ora che sono adulto (beh, ho la patente…) guardo solo film con il lieto fine assicurato, oppure anticipato da qualcuno che conosce già la storia. Non riesco a concepire che dietro ad un evento sportivo ci sia del marcio, ecco l’ho detto. Eppure è così. Ora, sfido a trovare un evento di portata rionale che metta d’accordo tutti, figuriamoci un Mondiale di calcio, quindi ho appreso delle prime critiche di qualche anno fa verso i mondiali brasiliani con la solita noncuranza, la stessa con cui ho girato pagina quando si rendicontavano le spese pazze delle Olimpiadi di Sochi. Poi però le voci si facevano più pressanti, le manifestazioni di piazza sempre più frequenti e la violenza non mancava mai. Qualcuno ci ha rimesso la pelle, moltissimi il tetto sotto cui dormivano.

E’ successo che il paese organizzatore, il Brasile dell’ordine e progresso, abbia voluto farsi grande per l’occasione ed abbia gonfiato il petto, fatto la voce grossa e messo la polvere sotto al tappeto: la riqualificazione delle favelas ha portato all’apertura di qualche ristorante e spostato spaccio e malavita un po’ più in là. Per gli abitanti poche briciole e tante botte. Si potrebbe dire in senso lato che gli abbiano tolto pure l’aria per respirare, visto che la foresta amazzonica nel dubbio è stata mutilata un altro po’. Appalti mal gestiti e morti nei cantieri “mondiali” hanno fatto il resto mentre i prezzi crescevano ed i salari dei brasiliani restavano fermi.

Non si tratta di stilare un elenco delle malefatte del Brasile e tanto per farla biblica non cerchiamo la pagliuzza nell’occhio altrui quando nel nostro abbiamo una trave. Noi parliamo di sport e lo sport è tutto tranne che questo. Lo sport è di tutti e per tutti, però non vale tutto: un evento può nascere dalle macerie, non sulle macerie. Non si può anteporre lo spettacolo ai diritti umani, tanto meno all’ambiente. Non si può accogliere le lussurie (sì, lussurie) dei nostri beniamini in un contesto di disagio e disuguaglianza: non è giusto, umano e neppure sportivo. Non è giusto neppure qua.

Il grande evento dai grandi costi stride quando nasce in un contesto dove mancano i diritti fondamentali: la rabbia mai come in questi anni è dietro l’angolo ed è facile comprendere le reazioni di chi si vede costruire uno stadio enorme dove mancano le scuole. Mi interrogo spesso sulla misura dello sport, inteso come macchina organizzativa inserita in un contesto sociale: come quantificare i costi sostenibili, cosa fare delle strutture create per un occasione? Cattedrali nel deserto e personale non pagato sono risposte che non contemplo. Le Olimpiadi in genere finiscono così eppure non riesco neppure lontanamente a pensare che ci si possa rinunciare. Idem per i mondiali.

I lavori di costruzione dello stadio Arena Amazonia a Manaus

D’altra parte se confinassimo le grandi manifestazioni a chi ha i conti perfettamente in regola per organizzarle, si farebbe tutto a Dubai e non credo che questa situazione accontenterebbe i più. Forse non accontenterebbe proprio nessuno perché comunque non si può togliere ad un popolo mediterraneo o sudamericano il diritto fondamentale all’emozione, alla partecipazione ed a volte pure alla vittoria. In realtà, non lo si può togliere nemmeno a tutti gli altri. Schiacciati dalle sconfitte di ogni giorno, forse davvero esiste un diritto alla vittoria, almeno quella sportiva, che seducente ed effimera ci illude per un secondo che non esista nient’altro. Però già che di illusione si tratta, almeno che non sia una presa in giro e non nasca da un sopruso, altrimenti non ne vale la pena.

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Davide Podesta
Nell’agosto 1997 ho acceso la tv ed invece dei cartoni ho trovato la Classica di San Sebastian. Da quel giorno è stato solo ciclismo, pedalato, gareggiato e raccontato ma soprattutto vissuto. Per me non è metafora di vita, è l’essenza: un amore incondizionato e puro, critico e consapevole ma neppur minimamente deteriorabile. Se leggo la Gazzetta in un bar lascio aperta la pagina del ciclismo affinché qualcuno la legga, se la discussione finisce sull’argomento state certi che metterò il cuore sul tavolo. Trasgredisco solo per le Olimpiadi, sia estive che invernali e detesto ogni critica che non sia costruttiva, soprattutto quelle di chi non accetta il passare degli anni. Suoi e degli altri.
Davide Podesta

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