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Taking the count – Floyd Mayweather Jr.

Passavo di sfuggita dalla sala dove il mio babbo, nella più classica delle tradizioni domenicali, affondava nel divano intento a guardare la replica di un incontro di boxe, tra i mugugni di mia madre praticamente già pronta per uscire. Guardavo distrattamente il pugilato professionistico, specie se non c’erano pesi massimi. Immagino fosse dovuto all’attrazione per la pura forza brutale espressa da due bisonti in quei pochi metri quadrati, tutto qui. Figuriamoci per due superwelter che non arrivavano ai 70 kg.

Andre (mio padre, ndr) chiede di fermarmi a guardare con lui qualche round e tra uno sbuffo e l’altro, per la prima volta, ho visto Floyd Mayweather Jr. Rimanendo a bocca aperta. Il suo avversario, Oscar de la Hoya, più grosso di stazza di un paio di chilogrammi e più alto di almeno cinque centimetri è pesante e potente nell’attacco, ma “Pretty Boy Floyd” (per via del fatto che da giovane terminava gli incontri senza segni evidenti sul viso) si muove pulito, colpisce veloce e soprattutto sembra avere il controllo psicologico del quadrato. Vince ai punti, in uno dei match più discussi e più visti della storia. Di lì a pochi incontri e ad uno stop di poco più di un anno, Mayweather si ritira da imbattuto, facendo scatenare la critica che punterà il dito sul pugile di Grand Rapids accusandolo di non aver mai sfidato pugili realmente al top della loro forma. Nessuno può dire il contrario ma ogni volta che vedo un incontro di Mayweather capisco quanti idealizzino e filosofeggino sulla “noble art”.

La sua storia è difficile come lo è quasi sempre quella che contraddistingue coloro che emergono dagli inferi della terra per ascendere all’olimpo dello sport. Il padre – anch’egli ex-pugile – lo sfiniva con gli allenamenti, pena severe punizioni se ciò non avveniva con estrema dedizione, la madre era dipendente dall’eroina e l’unico angelo che lo spronava correttamente a cercare la sua vi(t)a nel pugilato era la nonna:

«I think my grandmother saw my potential first. When I was young, I told her, “I think i should get a job.” She said, “No, just keep boxing”».

Guardare Floyd portare a segno un colpo è come osservare il rallenty di un documentario sui predatori: non è la forza in sé, che si concentra in un singolo muscolo, ma la fusione di migliaia di micro-movimenti che partono dai piedi creando una vera e propria onda che si abbatte furiosa sull’avversario a mezzo del guantone.
I suoi incontri scatenano una lotta tra televisioni e pay per view per ottenerne i diritti, tanto che sono numerosissimi in rete i video nei quali ostenta la sua ricchezza. E’ uno degli sportivi più pagati di sempre e tre dei suoi incontri restano ai primi posti in classifica per quanto riguarda i maggiori guadagni relativi a incontri di boxe di pesi non massimi.

Non è mai stato un comunicatore politicamente corretto e tante sono le volte in cui è dovuto tornare sui suoi passi per aver esagerato nelle dichiarazioni. Del mancato incontro con il filippino Manny Pacquiao affermò che se fosse avvenuto il match (annullato dall’entourage del filippino perchè quello di Pretty Boy chiese gli esami ematici alla vigilia della gara) l’avrebbe annientato e «costretto a cucinargli del riso con qualche animale tipo gatto o cane, alla maniera dei musi gialli». Oppure quando si è scagliato contro le MMA (Mixed Martial Arts, una tipologia di combattimento full contact all’interno di una gabbia) definendole una disciplina per «bestie che entrano scalze in una gabbia».

Ricordare Floyd Mayweather per la sua moralità sarebbe ingiusto per lo sport della boxe quanto il fatto di ricordare Tyson per il morso all’orecchio di Holyfield. La sua difficile esistenza è stato infatti il concime dal quale ha tratto la forza per emergere dalle ceneri della povertà. Ai giornalisti che sostengono il suo non essere un esempio per i giovani ha sempre risposto il contrario, affermando che «se ce l’ho fatta io, chiunque può farcela!». Senza mai smettere di allenarsi alimentandosi della povertà passata e con l’umiltà del primo giorno. Auguri “Pretty Boy Floyd”.

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Alessio Rassi
Nato nello stesso giorno - ma diversi anni dopo – del plurititolato pilota di rally Renato Travaglia o del navigatore Daniel Elena, mi appassiono fin dai primi vagiti a ogni genere di sport motoristico, su strada e su pista. Pratico ogni sorta di sport non-motoristico e questo mi porta a non concludere nulla. Quando finalmente posso dedicare tempo e (pochi) soldi ai motori guidati mi accorgo di aver già troppi anni sulle spalle, facendomene una ragione davanti ad una birra trappista. Utilizzo i week-end di gran parte dell'anno per seguire il Motomondiale, la SBK, l'MX GP, il WRC con IRC annessi e connessi e varie corse su strada. Capita spesso che mi chieda come sarebbe stato fare di un hobby la ragione di vita ma non potendo dare una risposta mi limito a raccontarne qualche fatto, con un casco vicino e la passione nel cuore.
Alessio Rassi

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