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Confessioni di un ubriacone dai piedi buoni

Un estratto dal libro Confessioni di un ubriacone dai piedi buoni di Nicola Cavagnaro (Meridiano Zero, 2016)

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Arrivando a East Dongey, a sinistra del porticciolo, troverete una fila di case di pietra grigia, con i tetti di ardesia. Più o meno al centro, una strada sale dal mare e va verso l’interno, in direzione dei campi. Percorretela, fate quattro passi facendo attenzione a non inciampare sul pavé. A un certo punto, sulla destra troverete la porta di un pub, intarsiata di vetri opachi, gialli e rossi, incastonati in un’intelaiatura di ferro battuto. Tra le finestre del primo piano e lo stipite dell’ingresso è affissa un’insegna che sporge sul marciapiede, appesa a un supporto, anch’esso in ferro battuto. Rappresenta una testa. Forse è quella di Giacomo II, con i capelli lunghi e il colletto bianco. Il locale si chiama King’s head.

Entrate.  Ecco, lì troverete Jimmy Sullivan.
Lo troverete seduto al suo solito sgabello, abbandonato sul cuscino di velluto verde, i piedi appoggiati alla barra e i gomiti al bancone, mai al tavolo o su una delle panche in legno massiccio consumate dagli anni.
Il suo posto è di fronte a una bottiglia di scotch, sempre la stessa, riposta con cura nel ripiano. Ogni giorno entra, si siede, e ordina un sommergibile[1].

Ne ordina due, tre, cinque, dieci. Dipende. Li ordina in serie e li beve uno dietro l’altro, con costanza e metodo.
Quando ha finito di scolarseli, finisce con l’addormentarsi con la testa tra le mani.
Poi attorno alle 10 il barista, John Lane, lo sveglia e lo accompagna alla porta.
Funziona così ogni santo giorno, escluso il lunedì, quando il King’s head è chiuso. I ritmi delle bevute di Jimmy Sullivan devono quindi rispettare, suo malgrado, il turno di chiusura e il diritto al riposo di John e sua moglie, che lavora in cucina.
Perché non ci sono altri pub a East Dongey: uno basta e avanza, per questo angolo sperduto di Inghilterra. Vi incuriosisce? Volete andarci? Niente di più facile: prendete un traghetto da Maryport, Cumbria – già, lassù, proprio vicino alla Scozia – e in una mezz’ora potete mettere piede sull’isola.
Eccovi, per ogni evenienza, un rapido elenco di cosa potrete trovare una volta sbarcati: un porto, una decina di pescherecci che si dedicano per lo più al merluzzo, il King’s head, un ufficio postale, la pescheria di Tom Mallory, il piccolo supermercato del signor O’ Connell, il lungomare, la chiesa di Saint Peter (in stile neogotico), alcune belle case a graticcio, un paio di cottage immersi nei prati color smeraldo che cominciano non appena si spegne il villaggio, un migliaio di pecore, un centinaio scarso di anime.
Età media, ben oltre i 50. Bambini nati nell’ultimo anno: zero. Iscritti alla scuola elementare: in totale, sette. Tutte le altre scuole sono a Maryport, oltre lo stretto.
Ah, dimenticavo: c’è una spiaggia di sabbia bianca, circondata da una brughiera che in primavera si tinge del viola dei fiori dell’erica. In più, dall’alta scogliera che si trova sulla costa ovest, nelle giornate limpide, si vede l’isola di Man e certe volte il profilo dell’Irlanda, una piatta linea di blu nebbioso.
Se vi piace il verde, se adorate i prati macchiati dal bianco delle pecore, le case isolate e i muretti a secco, se cercate iodio a vagonate, onde e mare grigio, nuvole e tempeste, se vi piace la tranquillità, East Dongey è il posto giusto. Soprattutto se vi piace la tranquillità.

Il mondo è pieno di persone che adorano la domenica mattina.
Qualcuno perché può dormire ad oltranza, anche se non ha fatto tardi o bisboccia la sera precedente. Altri perché possono svegliarsi presto, in certi casi ancora prima che negli altri giorni della settimana, e dedicarsi a qualcosa che li appassiona. Sport, lettura, passeggiate, poco importa. Non è questo il punto.
In molti casi tutto dipende dall’età: i giovani preferiscono il sabato, mentre invecchiando la domenica acquisisce un sapore agrodolce che risulta tutt’altro che stucchevole.
Sabato caos, musica, alcol. Domenica pranzo in famiglia, passeggiata, tempo libero, pochi o nessun impegno.
C’è chi vive la domenica come uno strazio fatto di vuoto, chi vive il sabato come un formicolio a ritmo eccessivo. Non c’è bisogno di aggiungere molto, è come sempre una questione di prospettive.
La domenica mattina, rispettate alcune condizioni (frigo pieno, riscaldamento acceso, ragionevole certezza di trovare le porte della fabbrica aperte il lunedì), è una meraviglia. Le macchine in strada si diradano, il ritmo del passo dei pedoni rallenta e perde elasticità, si fa più trascinato ma non per questo rumoroso.
Le famiglie si ritrovano in casa dell’uno o dell’altro, le nonne vengono sorrette dai nipoti su per le scale, si mettono sul fuoco pentole più grandi con dentro cibi più raffinati. Cibi della domenica.
L’aria è più fresca, pulita, limpida. Se brilla il sole si apprezza il suo chiarore appieno, senza filtri di vetri di autobus, treni, giornali che annunciano epidemie, guerre, tagli di stipendio.

Se il cielo è coperto e pioviggina un po’ anche rifare il letto è piacevole, con il calore del corpo che sale dalle lenzuola e vi si richiude, ben custodito,  pronto ad accoglierci a fine giornata. Se piove e di uscire nessuno ha voglia, assumono valore il divano e la poltrona, i plaid di tartan ripiegati che non chiedono altro che essere stesi sulle ginocchia.
Comunque, in ogni caso, è la luce a dare valore alla domenica. Quella che traspira dalla cucina e arriva lieve lieve in un salotto lasciato in penombra, giusto per dormicchiare un poco, quella blu un po’ aliena del gas che riscalda l’acqua per una tisana, quella serale della sala da pranzo – mentre fuori è buio, è autunno – mentre dal frigo saltano fuori gli avanzi di roastbeef, ancora più buoni dopo aver risposato in frigo qualche ora, un paio di birre fresche e leggere e sul fuoco l’acqua che bolle scotta un paio patate, giusto per scaldarsi un po’ senza sporcare troppo. Perché, ancora di più delle domenica mattina, chi ama davvero il giorno del Signore lo ama di sera: non è malinconia, non è attesa del lunedì che incombe ed è realtà, lavoro, fatica dietro l’angolo. Sono gli ultimi momenti del riposo, quelli che nessuno può toccare, del chi se ne importa se i piatti sono da lavare, la cesta dei panni sporchi piena e la televisione passa solo spazzatura. C’è silenzio, c’è la luce giusta e fuori fa freddo. È domenica, e ben poco altro importa.

Jimmy Sullivan non vede una domenica mattina da anni.
Quando giocava, almeno nei campionati professionistici, la domenica mattina per lui e tutti gli altri era il momento della tensione. A letto presto il giorno prima, un colazione energetica ma leggera, e poi fuori al freddo – con qualunque condizione meteorologica –  a guadagnarsi la pagnotta, i fischi o gli applausi.
Poi, a differenza della maggioranza delle persone, era la domenica sera il momento della bisboccia, del baccano, del far tardi: il lunedì non ci si allena, al limite lo si fa al pomeriggio, e quindi – soprattutto se si hanno i tre punti in tasca – la domenica sera è sinonimo di birra, cocktail, discoteca, ragazze.
Da quando la sua vita è un tran tran di bevute e sbruffonate, la domenica mattina non esiste. Esiste il mal di testa a cavallo dell’ora di pranzo, la bocca secca dopo il caffè acquoso recuperato sul lavandino e lì chissà da quanto, ed esiste l’attesa – che ci sia il sole o che piova – che il King’s head riapra, e lui possa risalire sulla giostra della sua devastazione.
Tra il momento in cui riapre gli occhi, inebetito e con più malto che globuli rossi nelle vene, e quello in cui ritorna al suo desolato sgabello, c’è l’ora peggiore della settimana per Jimmy Sullivan.
Quella in cui è solo (solo come sempre, intendiamoci) e si trova costretto a pensare. Perché si è svegliato tardi, molto tardi, e non ha niente da fare. Non che durante il resto della settimana la sua agenda sia zeppa di impegni, ma da lunedì a venerdì almeno cerca di imporsi di avere una routine, dei piatti da lavare o dei pavimenti da spazzare, qualcosa da mettere in ordine o un frigo da riempire.

La domenica, però, è sempre domenica. Il supermercato e la pescheria sono chiusi, come lo è ovviamente l’ufficio postale.
Il pomeriggio del primo giorno della settimana è particolare anche a East Dongey. Perché tante persone, soprattutto i pochi giovani, ne approfittano per prendere il traghetto e andare da qualche parte, magari semplicemente al cinema a Maryport o in un pub diverso dal solito. Ma, dato che la maggior parte delle persone che abitano qui è anziana, capita spesso che le famiglie vadano a trovare i nonni che hanno difficoltà a muoversi, o semplicemente sono troppo vecchi per farlo.
Così anche East Dongey diventa un luogo come tanti altri, quelli in cui si passeggia lungo la strada principale e si cerca di catturare i rari scampoli di sole che spuntano da quelle parti. E Jimmy Sullivan non ha nessuna voglia di uscire e di farsi vedere. Perché sa che la gente parla, che la gente sussurra, e lui è un perfetto argomento di discussione, qualcuno di cui si può sparlare senza problemi, perché le storie su di lui sono talmente tante che se ne perde il conto. Anche a distanza di anni dai fatti, quelli veri, ogni tanto ne vengono fuori di nuove. E si vergogna, Jimmy Sullivan.
E quindi resta a casa, in attesa delle cinque, dell’apertura del King’s head, quando l’avvicinarsi del lunedì fa ritirare la gente in casa e carica l’ultimo traghetto di visitatori, pronti a tornare alla loro vita quotidiana dall’altra parte dello stretto dopo il finesettimana.

[1] Drink costituito da una pinta di birra e uno shot di wiskey.

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Nicola Cavagnaro

Nicola Cavagnaro

Calcio, basket e cucina, le mie grandi passioni. Mi piacerebbe anche riuscire dignitosamente in almeno una di queste attività, ma sarà per la prossima volta. Nato a Sestri Levante, trapiantato a Genova, redattore siti web e telecronista. Difficile farmi stare zitto!

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