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Quando il calcio sa anche di politica

Sabato 30 maggio 2015 si è giocata a Barcellona la finale di Coppa del Re. In campo la formazione di casa, il FC Barcelona, contro l’Athletic Bilbao, formazione basca dal glorioso passato. Basti pensare che le due compagini sono quelle che detengono il maggior numero di Coppe del Re.

Lo stadio Camp Nou ha regalato ancora una volta uno spettacolo coreografico da brividi e un gol di Messi da cineteca. Prima del fischio d’inizio la parte di stadio che ospitava i tifosi dell’Athletic si è letteralmente dipinta di biancorosso, i colori sociali, sui quali è comparsa la scritta nera ATHLETIC. Sto parlando di un’intera curva del Camp Nou, che fa parecchie migliaia di posti. Sul lato opposto, invece, i tifosi catalani hanno proposto la frase FENT HISTORIA (“facendo la storia”), su sfondo blaugrana. Il tutto incorniciato da due enormi bandiere della Catalogna.

Sono un tifoso del Genoa CFC e di coreografie me ne intendo. Ma un cosa del genere, tra l’altro con la squadra ospite che mette in scena uno spettacolo altrettanto suggestivo di quello della formazione di casa, non mi era mai capitato di vederlo.

BarçaFC Barcelona e Athletic Bilbao, però, non sono solo due semplici squadre di calcio. Sono anche ambasciatrici politiche delle istanze di autodeterminazione rispettivamente di catalani e baschi. Vivendo a Barcellona da straniero, non voglio entrare nel merito delle ragioni o dei torti; non è mio diritto, se non in un contesto privato, magari davanti a un vermut con un amico catalano. Quello su cui mi voglio concentrare è, invece, la funzione del calcio, che va ben oltre le ragioni puramente sportive.

Manuel Vázquez Montalbán, creatore di Pepe Carvalho e profondo innovatore del genere noir, scrisse che il FC Barcelona è l’esercito senza armi di una nazione senza stato. Non è un caso che la seconda maglia del Barça riproduca la bandiera catalana; come non è casuale che i colori dell’estelada siano ripresi in diversi punti della divisa della squadra: il colletto, la fascia di capitano, lo scudo, i calzettoni e via dicendo; un discorso simile è possibile farlo anche sull’Athletic Bilbao e i Paesi Baschi. Le due squadre, quindi, portano in giro per il mondo non solo un buon calcio, ma anche le ragioni politiche del catalanismo e del nazionalismo basco – che non va confuso, quest’ultimo, con l’ETA.

Questa particolarità non è una novità degli ultimi anni, ma è così da sempre. In modo particolare lo era durante i quasi quarant’anni di dittatura, quando lo stadio di calcio era uno dei pochi luoghi in cui catalani e baschi potevano parlare la loro lingua e ingiuriare il caudillo con tutto il suo seguito, Chiesa e Falange incluse. Non si guardi, però, con simpatia a questa particolarità: rientra nelle logiche del panem et circenses che conferisce agli sport di massa, e al calcio in particolare, il ruolo di incanalare la rabbia e le frustrazioni di migliaia di cittadini.

Un situazione simile si è riproposta durante gli ultimi anni. È indubbio che, oltre alla presenza di una generosa legge in materia di assegni di disoccupazione, il fútbol abbia avuto un ruolo determinante nell’evitare che gli spagnoli (ma lo stesso si può tranquillamente dire per l’Italia, la Francia, il Portogallo, ecc.) si presentassero armati fino ai denti davanti al Parlamento. Quindi è opinione abbastanza diffusa che lo Stato abbia tollerato i problemi finanziari delle principali società calcistiche o le scorrettezze compiute dalle banche per finanziarle. Si pensi che solo ora, nel 2015 e in ritardo su molti altri paesi, la Spagna ha deciso di adeguarsi in materia di diritti televisivi per le partite di calcio. Lo ha fatto con una legge che dovrebbe porre fine allo strapotere di Real Madrid e FC Barcelona, strapotere che è il principale responsabile del dominio quasi incontrastato dei due club nella Liga.

In questo generale contesto vanno quindi intesi i fischi che sono piovuti dagli spalti del Camp Nou nel momento in cui sabato scorso è stato suonato l’inno nazionale spagnolo. Fischi che provenivano tanto dai tifosi blaugrana, come dal settore degli aficionados dell’Athletic. Per quanto chi scrive sia contrario a fischiare qualsiasi inno nazionale, e per di più se si tratta dell’inno di uno Stato democratico, credo che questo gesto vada letto in un contesto, quello spagnolo, che da sempre mescola calcio e politica. Di certo l’inno nazionale spagnolo non è stato fischiato in occasione dei Campionati Mondiali di nuoto del 2013 che si sono svolti a Barcellona, né viene fischiato nei numerosi momenti ufficiali e solenni che si svolgono nella capitale catalana. Era il contesto, l’occasione che riuniva baschi e catalani in un fischio di protesta. Contraddittorio, stupido, poco opportuno, offensivo, di cattivo gusto, quello che si vuole. Ma dentro lo stadio è nato e dentro lo stadio è morto. In quale altro momento baschi e catalani si sarebbero trovati, insieme, di fronte al Re in persona? Che la Spagna non sia, negli ultimi anni, un Paese coeso è sotto gli occhi tutti. Stupisce, quindi, che il Governo continui a fare orecchie da mercante o a comportarsi come se si trattasse di un banale problema di ordine pubblico.

È infatti del primo giugno la notizia che lo Stato spagnolo vorrebbe procedere nei confronti dei tifosi fischiatori di questa partita. Ebbene, capisco che Madrid sia rimasta quanto meno scottata dalla mancanza di rispetto di baschi e catalani, ma francamente credo che spendere migliaia di euro di denaro pubblico per un procedimento di questa natura sia poco opportuno, tanto più in un momento di crisi economica e di crisi sovrana, visto che ogni qualvolta il Governo di Rajoy muove contro Catalogna e Paesi Baschi, le loro ragioni indipendentiste acquistano forza, popolarità e fondamento. Se si deciderà di procedere, infatti, da Bilbao a Barcellona si potrà sempre dire che la Spagna è un Paese in cui non si è neanche liberi di fischiare.

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Alessio Piras
"Desocupado lector", direbbe di me Cervantes. Ho iniziato la mia carriera sportiva col nuoto e l'ho conclusa con un legamento rotto giocando a rugby durante un merendino di Pasquetta. Nel mezzo: calcio (in porta e come arbitro per evidenti limiti tecnici) e molta atletica. A 21 anni ho messo la testa a posto e ho studiato come il peggiore dei secchioni fino a conseguire un dottorato. Sono genoano, vado in Vespa, mangio focaccia e, soprattutto, leggo tanti libri. Da grande vorrei insegnare, ma nel frattempo scrivo e faccio ricerca in giro per l'Europa.
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