La mala sport-educación

Sarà capitato a molti di essere spettatori durante qualche manifestazione sportiva a livello amatoriale. In Italia, al 90%, una partita di calcio tra dilettanti. Il clima che si respira tra quei piccoli giganti di cemento armato, che la federazione chiama stadi, non è dissimile da quella dei grandi palcoscenici, se non fosse che gli attori in campo spesso sono giovanissimi e sugli spalti ci sono ultras molte volte travestiti da genitori. La foga, le urla e la rabbia per l’avversario o per il proprio stesso figlio sono il frutto di una mancata educazione – intesa come formazione sociale e culturale – sempre più dilagante. Non è solo sport, come dovrebbe essere. Forse è anche per questo che non ho mai praticato sport a livello agonistico, certi ambienti a me un po’ spaventavano e mia madre, chioccia iperprotettiva, mi ci ha sempre tenuto alla larga.


Ciò non avviene solo a livello dilettantistico, ma moltissimi campioni dello sport, una volta ritiratisi dai riflettori raccontano la loro crescita, tra allenamenti massacranti, genitori esigenti e speranza di successo. Le eccessive aspettative da parte di figure paterne e materne e le continue pressioni su questi creano nei figli stati di ansia da prestazione per la ricerca di un successo che serva quasi a scacciare via il proprio insuccesso nella vita quotidiana. Il campione del mondo Bruno Conti disse a riguardo: “Se potessi, chiuderei le tribune ai genitori. Sono loro il vero pericolo per i ragazzi”.

Lo racconta Agassi nella sua biografia “Open”, dove analizza il difficile rapporto con il padre e le ore dedite ad allenamenti devastanti per il corpo e per la testa.
“[…]E’ assurdo – scrive il campione – che quando gli chiesi di collaborare alla stesura del libro lui stesso rispose che non gliene importava nulla e che se fosse tornato indietro avrebbe rifatto tutto tranne farmi giocare a tennis[…]”, poiché altri sport come il golf o il baseball offrono carriere più lunghe e di conseguenza più soldi.

Altresì nella biografia di Casey Stoner, Oltre ogni limite, il pilota australiano ritiratosi dalle scene a soli 27 anni racconta come adorasse andare in moto sin dai 18 mesi di età, ma come da giovanissimo scoppiasse a piangere sulla linea di partenza perchè non gli piacesse avere gli occhi di tutta quella gente addosso. Addirittura nel caso del “canguro mannaro” – soprannome affibiatogli a carriera inoltrata – si aggiunse l’aggravante di dover abbandonare la scuola media primaria per continuare a studiare in casa a causa di numerose angherie subìte ad opera di coetanei prepotenti (Casey era molto magro, quasi scheletrico per la sua età, ndr). E continua sostenendo il suo attuale disagio a gareggiare davanti ad un gran numero di persone. Lo stesso ex-collega Jorge Lorenzo, nella sua biografia racconta il difficile rapporto con un padre duro e severo negli allenamenti fin dai 4 anni di età. Tanto da litigare con lui qualche anno fa e interrompere momentaneamente i rapporti. Il maiorchino confida di avergli intimato di non farsi più vedere su un circuito di gara, per poi riappacificarsi più avanti. Il campione spagnolo non nasconde la freddezza della figura paterna e di come abbia influito sul suo carattere, al punto che Jorge dovette prendere al suo fianco una figura che lo motivasse e quattro mesi di lezioni di teatro per aiutarlo a vincere la timidezza e fargli spuntare un sorriso rimasto sopìto per molti anni dietro insicurezze trasmesse molto probabilmente da una rigida (dis)educazione sportiva.

Come già accennato, si fa largo sempre più insistentemente una figura di psicologo dello sport che interagisca non solo con atleta ed entourage ma soprattutto con i genitori, per impedire a questi di far compiere scelte sbagliate ai figli. I casi qui sopra sono sicuramente eclatanti perchè i protagonisti ce l’hanno fatta, hanno avuto l’occasione di raccontare la loro difficile crescita per il raggiungimento di carriere d’eccellenza e con questo anche la tempra forgiata nel corso degli anni. Ma per pochi che “arrivano”, quanti sportivi invece si “bruciano” con effetti devastanti non tanto sulla carriera sportiva quanto nella vita di tutti i giorni?

Con curiosità, mentre scrivo queste righe, guardo alle carriere di due atleti di cui ho scritto o accennato in precedenze, Valentino Rossi e Antonio Cairoli e di come una educazione più “libera” e distesa da scelte forzate abbia inciso in positivo sulla stesura di pagine meravigliose dello sport, di come il talento sia maturato attraverso un percorso più dolce e votato al divertimento. Non senza mancare di sacrifici, certamente, ma senza sottoporli costantamente a giudizi severi degli insuccessi.
Per dirla alla Warren Beatty:

Avrai raggiunto il successo nel tuo campo quando non saprai se quello che stai facendo è lavorare o giocare.

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Alessio Rassi
Nato nello stesso giorno - ma diversi anni dopo – del plurititolato pilota di rally Renato Travaglia o del navigatore Daniel Elena, mi appassiono fin dai primi vagiti a ogni genere di sport motoristico, su strada e su pista. Pratico ogni sorta di sport non-motoristico e questo mi porta a non concludere nulla. Quando finalmente posso dedicare tempo e (pochi) soldi ai motori guidati mi accorgo di aver già troppi anni sulle spalle, facendomene una ragione davanti ad una birra trappista. Utilizzo i week-end di gran parte dell'anno per seguire il Motomondiale, la SBK, l'MX GP, il WRC con IRC annessi e connessi e varie corse su strada. Capita spesso che mi chieda come sarebbe stato fare di un hobby la ragione di vita ma non potendo dare una risposta mi limito a raccontarne qualche fatto, con un casco vicino e la passione nel cuore.
Alessio Rassi

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