Le ragioni di un fallimento

Ebbene si. Incredibile ma vero: dopo oltre 50 anni (o quasi), l’Italia calcistica torna a uscire in un Mondiale per due volte consecutive nella fase preliminare. E se nel ’62 ci si poteva, non a torto, appellare ai pugni e ai calcioni cileni non sanzionati dall’arbitro inglese Aston e se nel ’66 potemmo prendercela, anche, contro l’incredibile jella nella partita contro la Corea del Nord, in questi due ultimi mondiali la causa del fallimento va ricercata solo e soltanto in noi stessi. Vale a dire in CT e giocatori, e soprattutto, come cercherò di analizzare più avanti, nel nostro “sistema-calcio”. Un minuto dopo la sconfitta contro l’Uruguay e la nostra conseguente uscita di scena, è cominciato uno degli sport nazionali più in auge: il tiro al “capro espiatorio”, la lapidazione da parte di milioni di italiani nei confronti dei presunti colpevoli della debacle. In primis verso Balotelli e i giovani della spedizione, tacciati di menefreghismo verso i colori azzurri e interessati più ai loro tatuaggi, selfie e twitteraggi, piuttosto che a difendere e sudare per la maglia azzurra (il tutto fomentato dalle parole a caldo di Buffon intervistato ancora sul terreno di gioco di Natal). In seconda battuta, ovviamente e giustamente, verso Prandelli. In terza istanza verso la permissività e la mollezza della Federazione che ha portato i nostri nell’asettico e, per le nostre tasche di contribuenti costosissimo, Portobello Resort, con fidanzate, mogli, tate e suocere al seguito. Per carità, ci sta tutto e ognuna di queste cause ha una sua fondatezza e verità. Ma per quanto mi riguarda le cause di questo fallimento, vanno ricercate su altri due livelli: il primo lo chiamerei contingente, il secondo strutturale.

1 – Il livello contingente.
Analizzando asetticamente la nostra spedizione brasiliana, va detto innanzitutto che i prodromi di un probabile disastro sportivo, si erano già ampiamente denotati durante le qualificazioni ai Mondiali, quando, inseriti in un morbido girone (il nostro è stato il girone dei 9 europei con la peggiore seconda classificata che non è neppure andata agli spareggi), siamo riusciti sì a rimanere imbattuti, ma abbiamo faticato enormemente in ogni partita: dalla prima (il 2-2 in Bulgaria), al doppio 2-0 sui maltesi, fino ad arrivare allo 0-0 immeritatissimo a Praga con la Rep. Ceca e l’1-0 striminzito in casa con la Bulgaria. Due partite che ci hanno dato il pass decisivo per il Brasile. In autunno rimanevano ancora due partite da giocare: bastava vincerne una per essere teste di serie in Brasile. Ma i pessimi e addirittura fortunosi pareggi contro Danimarca e, soprattutto, contro l’Armenia in casa, hanno decretato il sorpasso belga e svizzero ai nostri danni nel ranking FIFA e la conseguente estromissione dalle teste di serie.
L’Italia non sapeva più vincere: le amichevoli giocate per 8 mesi senza alcuna vittoria davano indicazioni sempre più sconfortanti, sia sotto il livello tattico che sotto quello degli interpreti (neppure nelle ultime due contro la modestissima Eire e il misero Lussemburgo a Perugia).
Già gli interpreti. Questo è senz’altro un tema nevralgico: grandi critiche sono state mosse a Prandelli per alcune sue scelte sui 23 convocati. Se le scelte sui portieri non si discutono, e premesso che la generazione di difensori attuale non vale 1% di quella delle decadi passate che ci hanno resi famosi nel mondo, l’errore più grande, in questo reparto, è stato quello relativo ai terzini. Portarne 4 destri e 1 solo sinistro (Pasqual) nei 30 e addirittura 3 destri e 0 (zero) mancini nei 23 finali, è stato un errore madornale, che si è denotato palesemente nelle partite contro Costa Rica e Uruguay. I destri adattati a sinistra, secondo me, sono una cagata pazzesca (a meno di abnormi qualità tecniche dell’interprete e non è il caso dei nostri Darmian, De Sciglio e Abate).
Si può puoi discutere di questa pletora di centrocampisti con caratteristiche simili tra di loro (Pirlo, Aquilani, Motta, De Rossi): certo, si poteva lasciare a casa un bollito Thiago Motta e portarne altri più di sostanza e di inserimento, con un passo più “svelto” (Florenzi ad esempio). Ma in generale, data la povertà del serbatoio cui attingere, non mi sento di attaccare il CT.
Idem per gli attaccanti: certo, qualcosa di meglio si poteva fare. Ad esempio portare Diamanti, lasciando a casa due tra i tre trequartisti (Cerci, Cassano e Insigne). Oppure convocare un’altra prima punta di peso, capace di difendere la palla e far salire la squadra, in caso di (quasi certa) latitanza di Balotelli (Pazzini, Gilardino). E sicuramente Immobile ha caratteristiche diverse da questi. Sgombro il campo da qualsiasi equivoco sul giocatore più discusso: secondo me Balotelli andava portato. Sfido tutti i soloni che si sono messi a pontificare dalle tv e dai giornali contro Bidonelli (che per me rimane comunque un mezzo giocatore): chi di loro non l’avrebbe portato e fatto giocare? Piuttosto, in relazione al suo utilizzo fa specie l’incoerenza di Prandelli che prima giustifica la mancata convocazione di Gilardino con il fatto che non vuole dare punti di riferimento alle difese avversarie con una punta centrale fissa, e, dopo , lo fa giocare proprio in quel modo. Ma direi che è tutto il progetto prandelliano che esce demolito dal periodo 2012-2014. Questo tentativo di giocare molto la palla con i centrocampisti per poi verticalizzare repentinamente verso le punte, una sorta di tiki-taka in salsa italica, arriva in un momento storico in cui probabilmente questa concezione è superata, ben studiata e anestetizzata dai tecnici di mezzo mondo. E soprattutto, per implementarla in maniera proficua e vincente, bisogna avere gli interpreti giusti: l’Italia non ha né Xavi, né Iniesta né Busquets o Xavi Alonso per giocare in questo modo (e un Villa davanti). E, per i motivi sopraesposti, a volte non basta neppure avere questi interpreti per riuscire, come testimoniano i fallimenti di Barcellona e Spagna in quest’ultima annata.
Decisiva poi per il mondiale azzurro è stata la condizione fisica: tutte le squadre andavano al triplo della velocità e della reattività dei nostri, che sembravano aver speso interamente le poche energie nel serbatoio nel match iniziale contro l’Inghilterra. Nei successivi 195 minuti (recuperi compresi) una sola palla-gol (quella sprecata da Balo contro la Costa Rica sullo 0-0). Poi il vuoto più assoluto. Mai un cambio di passo, di ritmo, un’azione ficcante in profondità, nessun uomo che avesse la gamba di fare un dribbling o una cavalcata sulla fascia. Solo stanchezza o anche scarso impegno? Le frizioni all’interno degli spogliatoi tra la vecchia guardia e nuovi arrivati probabilmente c’erano, ma non credo siano state così determinanti per il risultato finale.

2- Il livello strutturale. Passiamo alle vere note dolenti. Che il nostro calcio sia profondamente malato è sotto gli occhi di tutti. E, per trovare la medicina idonea, vanno ricercate le cause più profonde della malattia. Credo che siano molteplici.
In primis, gli scarsi investimenti e la scarsa attenzione verso i settori giovanili, dove sempre più si reclutano stranieri e sempre più si insiste sulla tattica e meno sulla tecnica, e dai quali sempre meno si attinge per gli innesti nella prima squadra. Guardiamo alla Germania, l’ideal-tipo di come si dovrebbe pianificare il calcio: dopo i fallimenti di Francia ’98Euro 2000 e 2004 (inframmezzati però dal 2° posto mondiale in Corea nonostante una squadra non certo brillante e spettacolare), hanno seriamente investito sui giovani, allevando e dando fiducia a una pletora di ragazzini che hanno portato la Mannschaft a 2 semifinali e a 2 finali consecutive tra mondiali ed europei tra il 2006 e il 2014. Ozil, Goetze, Schurrle, Reus, Khedira, Muller, Bender, Gundogan, Draxler, Kroos: tutti nati tra la fine degli ’80 e inizio ’90. Generazione di fenomeni casuale o risultato di un programma? Beh, la risposta è scontata.
Se guardiamo invece alle nostre giovani leve, ai componenti della nostra Nazionale U21, vedremo che sono tutti giocatori che militano in B, o, nella migliore delle ipotesi, fanno della gran panchina in A. E pensare che la nostra tradizione di U21 è stata, fino a un decennio fa, davvero valida: dai tempi della magnifica U21 di Vicini (fenomenale con Vialli, Mancini, Borgonovo, Donadoni, De Napoli, Zenga, Ferri etc), fino ad arrivare a quella vincente di Gentile. Poi il buio più totale (ad eccezion fatta per quella del biennio 2008-09 con i vari Giovinco, Bocchetti, Criscito, Motta, Cigarini, Balotelli che venne eliminata immeritatamente dalla Germania in semifinale agli europei di Svezia 2009).
Altre scelte poi sono state dannosissime: la Serie A a 20 squadre (nata sulle vicende del calcio-scommesse nel 2004-05), con appena tre retrocessioni, ha portato sempre più ad un abbassamento della qualità generale delle rose; se a questo si somma la crisi economico-finanziaria e il nostro sistema di tassazione più svantaggioso per le società rispetto agli altri grandi paesi europei, va da sé che i grandi investitori privati (sia a livello di acquisizione di club importanti, sia a livello di sponsor) si siano concentrati maggiormente sui campionati esteri (ormai per qualità ed appeal mediatico il nostro è diventato il 5° campionato europeo). E questo ha portato a far trasmigrare i grandi campioni fuori dall’Italia, che non è più il polo di attrazione dei fuoriclasse mondiali, come invece succedeva negli anni ’80 e ’90. Non solo: il numero di partite all’anno, moltiplicandosi enormemente (anche a causa della nuova formula dell’Europa League) ha portato i giocatori più validi che militano nei maggiori club (e che sono la fonte primaria delle Nazionali) a giocare qualcosa come 55-60 partite annue, col rischio di arrivare poi alle competizioni estive frusti e scarichi (europei e mondiali).
Questo, evidentemente, è un problema generalizzato: le partite spettacolari nei grandi eventi calcistici sono sempre meno e si assiste sempre più a partite bloccate, mediocri e a ritmi lenti. Insomma, noiose (certamente anche per la maggior sagacia tattica raggiunta da tutte le nazionali partecipanti, ma anche per un abbassamento della qualità tecnica media generale).
Ma vi ricordate Messico ’86 o gli Europei dell’88? Che partite, che giocate. Confrontate quelle edizioni con un Sudafrica 2010 o con questo stesso Mondiale: la differenza di qualità, e quindi di divertimento, è abnorme. L’Italia pare evidentemente aver patito maggiormente questa situazione generale, probabilmente anche per il maggior stress ambientale che si sente nel nostro campionato, che probabilmente crea maggiori strascichi nei giocatori del nostro campionato (ma in passato ne hanno risentito fior di campioni, Messi in Sud Africa in primis). Insomma, la situazione è complessa e i nodi da sciogliere tanti. E, fino ad oggi, i mediocri dirigenti che si sono succeduti ai vertici della FIGC non sembrano averli compresi, nè avere in mano le situazioni per risolverli.

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Roberto Ursino

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