Rubare lo sport ai ladri non è reato

Il titolo di quest’articolo in realtà è lo slogan con cui si presenta Ladri di Sport – Dalla Competizione alla resistenza, libro scritto da Ivan Grozny e Mauro Valeri, edito da Globalbooks in collaborazione con Agenzia X. Come sottolinea nell’introduzione Cristiano “Xho” Presutti, il libro si inserisce nella rivoluzione futbologica, ovvero in quella tendenza conosciuta come New football writing: una letteratura in grado di raccontare lo sport e il calcio da un altro punto di vista, capace di “elevare il discorso, di praticare la passione per il pallone e utilizzarla nella produzione di forme e contenuti rinnovati”. Nelle pagine del libro (e su Sport alla Rovescia), Ivan Grozny si è occupato delle proteste del popolo brasiliano contro i mondiali e la FIFA. Come l’Italia 24 anni fa, anche il Brasile ha visto la costruzione di opere costosissime e inutili: stadi come quelli di Cuiabà, Natal e Manaus, sono destinati a diventare dei “cimiteri abbandonati” per assenza di tradizione calcistica. Il Manè Garrincha di Brasilia, invece, costato 526 milioni di euro, verrà affittato a squadre più blasonate per 7/8 partite (dato che il Brasilia Futbol Club milita in serie D). Tutto questo mentre lo Stadio Olímpico do Pará di Belem, oltre 45 mila posti e perfettamente funzionante, non è stato neppure inserito nelle location mondiali. Insomma sprechi intollerabili, finanziati al 70 % da soldi pubblici, che in definitiva hanno arricchito multinazionali come la Oderbrecht, che casualmente ha vinto tutti i (finti) appalti. Morti bianche, corruzione, speculazione edilizia: il Brasile aveva davvero bisogno dei Mondiali 2014 (e delle successive Olimpiadi del 2016)? O forse i problemi da affrontare sono di altra natura: mobilità urbana, infrastrutture, sanità, risorse umane?

«E’ tutta una questione di sistema economico – osserva Ivan Grozny, che nel 2013 ha vissuto alcuni mesi in Brasile – eventi come i mondiali o le olimpiadi non portano alcun vantaggio alla popolazione locale. L’indotto è esclusivamente privato e alla gente non rimane nulla. Faccio l’esempio degli stadi brasiliani, che sono luoghi differenti dal resto del mondo. Attorno agli impianti è sempre esistita un’economia informale e non si può ignorare che il Brasile sia un paese con 100 milioni di poveri, ma poveri veri. La gente sopravvive anche grazie ad espedienti: panini e birre venduti allo stadio, taxi collettivi e altro. Con il mondiale questa economia sotterranea è stata spazzata via e molta gente è rimasta senza l’unica fonte di sopravvivenza. Aggiungici, poi, che la terra è privata, che il diritto alla casa è una questione centrale e hai un quadro completo della protesta popolare. Prendi il Maracanà: uno stadio che era punto di incontro aperto per quasi 200 mila persone, ora è in appalto alla Odebrecht per 30 anni».

In pratica è stato il popolo brasiliano a sostenere i costi dell’ ultimo mondiale e la Fifa si è rivelata per quello che in verità è: un gruppo imprenditoriale yankee-colonialistico, che ha portato nel paese un prodotto privato (finanziato con il prestito pubblico a tassi superagevolati) e che ai brasiliani non ha lasciato neppure i soldi dei biglietti delle partite. Alla gente, alla fine, restano solo macerie, demolizioni, espropri, sfratti e rimozioni forzate che hanno colpito le classi più povere e gli abitanti delle favelas, eseguite violentemente dalle forze di polizia. Le tanto pubblicizzate UPP (Unidades de Policia Pacificadora) più che “pacificare” le favelas hanno spostato la geografia del narcotraffico: un’operazione di immagine che ha nascosto la povertà sotto il tappeto (mica tanto) e che come eredità ha lasciato un aumento dei crimini da strada (aggressioni, furti, stupri, omicidi). In quest’ottica i mondiali sono stati un’ottima vetrina per la creazione del consenso internazionale. In Italia, ad esempio, lo spazio dato alle proteste è stato esiguo e nessuno dei media mainstream ha mai posto l’accento sul fatto che Marin, presidente della federcalcio brasiliana, fosse a capo del Doi-Codi, un’agenzia di servizi segreti repressiva, responsabile dell’uccisione di Vladimir Herzog, giornalista indipendente eliminato per la sua opposizione al regime (a questo proposito segnaliamo l’approfondimento di futbologia.org). Viene da domandarsi se dopo Argentina ’78, quello in Brasile non sia stato uno dei Mondiali più censurati della storia? E di conseguenza: che responsabilità abbiano avuto i calciatori brasiliani e non?

«Alla fine – risponde Ivan – i calciatori sono l’anello debole. Soltanto Maradona ha parlato della FIFA e ne ha pagato le conseguenze. Socrates, poi, è stato unico. Esporsi è molto complicato, rischi di essere multato o di incorrere in guai peggiori. Prendi Ezio Glerean o Baggio: per una frase rischi di non lavorare più. Quando Thiago Silva è andato al PSG – prosegue – aveva dichiarato di non aver accettato la proposta del Barcellona per questioni economiche, dato che doveva provvedere alla sua famiglia. E’ così: molte famiglie investono tutto sui ragazzini e il calcio diventa una via d’uscita dalla povertà. E quando si arriva ad un contratto professionistico, la vita cambia: chi gioca provvede a tutta la famiglia (non solo padre e madre, ma anche fratelli, sorelle etc). Chi glielo fa fare di esporsi. Perchè? Cosa vuoi aspettarti di più dai calciatori? Tatuaggi. Sulla censura – conclude – sono d’accordo. Ad alcuni colleghi giornalisti, addirittura, per contratto è stato impedito di occuparsi della protesta. E poi basta guardare i servizi della Rai e Sky: tutti uguali e stereotipati». Proprio per questo motivo, a chiunque voglia documentarsi, consigliamo la visione di BrasilS, format tv prodotto da Sherwood.it e SportallaRovescia.it.

La conversazione si è conclusa con uno spunto che inizialmente avevo colpevolmente sottovalutato: quello ambientale. Sembra una catena, ma in questa vicenda ogni cosa sembra portarne una peggiore: « le coste di Salvador, Natal e Recife si stanno riempendo di cemento. E grazie ad una legge-deroga, che permette la costruzione in verticale, alcuni dei litorali più belli del Brasile stanno cambiando fisionomia».

Alla fine mi chiedo se questo sia davvero sport o se lo sport sia una scusa per mascherare il business. Un allenatore, quando ancora giovane calcavo i campi in terra battuta della periferia genovese, guardando il campo istrionicamente ci apostrofava: «calcio vero, voi siete calcio vero». Scianca aveva ragione, quello era l’antidoto. Rispetto ai tanti libri di denuncia sui mali del calcio, nelle pagine di Ladri di Sport vengono anche raccontate esperienze di calcio vero, di resistenza ed alternativa allo sport-business: “le polisportive, i matti, attivisti contro il razzismo, migranti, rom e barboni”, che “dal basso ripartono per ripartire, attaccare e divertirsi ancora”.
Perchè lo sport è questo: socialità, incontro e divertimento. E citando un articolo pubblicato tempo fa su Lacrime di Borghetti: “soccer is a very simple game“.

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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