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I ribelli degli stadi

I ribelli degli stadi. Una storia del movimento ultras di Pierluigi Spagnolo guarda al mondo ultras senza pregiudizi. Nel bene e nel male gli ultras hanno scritto pagine importanti nella storia del calcio italiano e rappresentano quasi mezzo secolo di aggregazione, passione, originalità e folklore. C’è chi li etichetta come teppisti o come i padroni violenti del calcio e chi, invece, come gli ultimi romantici di un mondo che ha perso tutta la sua genuinità. Per capire cosa sia il movimento ultras bisogna non fermarsi all’apparenza e considerare questo insieme di uomini e donne come un aggregazione spontanea, trasversale e antagonista.
«Senza dimenticare – ricorda Pieluigi Spagnolo, giornalista della Gazzetta dello Sport – che le curve sono sempre specchio della società in cui viviamo».

19657475_480746642278722_2718239702487738610_n-e1499774128515Il Sessantotto è stato un anno di grandi cambiamenti sociali, culturali e di costume. Ma è anche l’anno che simbolicamente segna l’inizio del movimento ultras in Italia. Come nasce il movimento nel nostro paese? Quali furono i primi gruppi?
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Il ’68 è un anno cruciale per la nascita del mondo ultras. E non è un caso che la Fossa dei Leoni nasca proprio in quell’anno, seguita nel ’69 dai Boys dell’Inter, dagli Ultras della Samp e dai tifosi del Torino (che metteranno lo striscione qualche anno dopo); il ’71, invece, sarà la volta dei veronesi, il ’72 dei napoletani, il ’73 dei genoani e fiorentini, il ’74 dei bolognesi. Insomma, non è casuale: in quel contesto culturale e sociale, di maggior partecipazione (anche politica), di aggregazione nelle piazze e in generale di cambiamento, fu quasi naturale assistere alla nascita di una sottocultura destinata a durare nel corso dei decenni, un fenomeno che è riuscito a sopravvivere ai cambiamenti della società italiana meglio di tanti partiti politici, associazioni o sindacati. La partecipazione della popolazione italiana in quegli anni aumenta e negli stadi trasforma lo spettatore in tifoso e il tifoso più passionale in ultras; con il sostegno alla propria squadra, gli ultras decidono di partecipare al gioco in modo attivo e iniziano ad aggregarsi per fare un tifo organizzato che prevede coreografie, fumogeni, cori, lancio di coriandoli, tamburi, megafoni. In pratica vengono portati all’interno degli stadi gli strumenti che animavano le contestazioni di piazza, la terminologia, la simbologia, l’aggressività e anche lo stesso atteggiamento conflittuale. E non è un caso che i nomi dei primi gruppi ultras riecheggino proprio la politica (Brigate, Fedayn, Settembre Bianconero). I medesimi scenari della politica nelle piazze si ripropongono anche all’interno degli stadi».

Gli anni ’70 sono un decennio di antagonismo e forte scontro politico. Come si riflette questo clima sulle curve?
«Il fenomeno ultras negli anni Settanta si diffonde, raggiunge tutte le tifoserie italiane e alla fine del decennio non c’è più uno stadio in cui non esista l’abitudine di radunarsi nel settore popolare per fare il tifo in maniera organizzata. E il clima di scontro nella società civile viene ripreso anche sugli spalti: sono gli anni in cui la violenza del calcio italiano si sposta da pubblico vs giocatori o arbitro a tifoseria vs tifoseria».

Gli anni ’80, invece, vedono l’arrivo di giocatori del calibro di Maradona e Platini, il Verona vince lo scudetto e il Milan di Berlusconi inizia a raccogliere i primi successi. Il tifo esplode e si radicalizza, mentre la legge 401 del 1989 introduce le diffide. Sono una decade di crescita economica, ma anche di forti contraddizioni: che anni sono per gli ultras?
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Sono gli anni del boom del movimento, delle trasferte di massa, degli spettacoli coreografici più incredibili, ma anche un periodo di cambiamento. Il decennio infatti si chiuderà con la morte di Antonio De Falchi, tifoso romanista aggredito da un gruppo di milanisti, che muore durante la fuga stroncato da un arresto cardiaco. E la legge che introduce i DASPO è proprio una diretta conseguenza dello Stato a quell’episodio (proprio come dieci anni dopo la morte di alcuni tifosi salernitani porterà alla soppressione dei treni speciali)».

L’apice del fenomeno ultras italiano si raggiunge a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi anni del decennio successivo. Gli anni ’90 vedono il punto più alto del movimento, ma anche l’inizio del riflusso: cambiano gli ultras, ma soprattutto inizia a cambiare il calcio. Ed è proprio a metà di questa decade che si può collocare il punto di non ritorno del calcio italiano: quali sono gli episodi chiave di questo momento di svolta?
«Uno sicuramente è la nascita delle Pay Tv nel 1993 (la prima partita trasmessa fu Lazio-Foggia e terminò 0-0); mentre l’altro momento cruciale è stato l’omicidio di Vincenzo Spagnolo a Genova nel gennaio del 1995: una delle tragedie che più ha macchiato, ferito e colpito il mondo ultras. E che rappresenta un esame di coscienza forse non del tutto completato dal movimento, con la sosta del campionato e quella riunione a Genova che portò al famoso volantino Basta Lame, Basta Infami. Un’auto-analisi che purtroppo è durata poco perché i coltelli sono riapparsi. Ecco, secondo me questi sono due passaggi chiave nel declino del mondo ultras, che oggi non è certo più quello della fine degli anni ’80 o inizio ’90».

Pay tv, inasprimento dei DASPO, fragranza differita, biglietti nominativi, tornelli, decreto Pisanu, partite a porte chiuse, zone di pre-filtraggio, diffide di gruppo, tessera del tifoso: gli anni dal 2000 ad oggi segnano il lento ed inesorabile abbandono delle curve non solo da parte degli ultras, ma anche di molti semplici tifosi. Sono anni in cui lo scontro tra forze dell’ordine, Stato e vertici del calcio da un lato, e ultras dall’altro, raggiunge l’apice; anni di repressione (miope), che hanno il demerito di creare il deserto nelle curve, scambiando per pace tale effetto. In molti casi si è trattato di una progressiva perdita delle proprie libertà fondamentali: tali misure sono state funzionali ad una certa idea di calcio-business o solo un modo reazionario per fornire genericamente risposte?
«Difficile dare una risposta. Lo Stato probabilmente ha reagito con un atteggiamento perbenista anche al fine di soddisfare l’opinione pubblica, che poi queste risposte siano state funzionali agli interessi economici delle pay-tv, ecco, non mi sento di poterlo escludere totalmente. Alcune scelte dei vertici del calcio, ad esempio, spesso sembrano dettate per agevolare la visione delle partite dal divano piuttosto che dalle gradinate di uno stadio: se rendi l’acquisto di un biglietto così difficoltoso e poco economico, se fai giocare le partite in orari assurdi, beh, è difficile non pensare che stai spingendo migliaia di persone a scegliere di vederla da casa. O che stai cercando di creare un calcio-prodotto solo per ricchi. Alcune scelte appaiono davvero prese in tale direzione. Ma anche per agevolare il controllo delle curve con stadi meno pieni: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Creano il deserto e la chiamano pace. L’anima popolare del calcio, però, così si perde».

Ultima domanda: il futuro degli ultras e dei tifosi è davvero fuori dagli stadi, nei campi di periferia e nelle polisportive popolari?
«Secondo me l’anima genuina e primordiale degli ultras è lì. Dove non ci sono soldi. Io posso parlare dell’Ideale Bari che è la realtà che conosco meglio: i giocatori giocano gratis e il club va avanti grazie al contributo mensile di decine di persone, ad una quota associativa e ai ricavi delle serate in cui vengono venduti gadgets e magliette. Ecco, in una realtà del genere chi tifa lo fa veramente per il gusto di sentirsi parte di qualcosa, per sostenere la squadra e arrivare alla vittoria uniti. Laddove invece ci sono interessi esorbitanti, i calciatori sono nababbi milionari e le curve fanno i soldi con il bagarinaggio, ebbene, è ovvio che in un calcio simile anche gli ultras non siano più genuini come una volta. Ovviamente in alcuni casi, senza in alcun modo generalizzare. Anche perché gli ultras non sono morti e le curve sono sempre il luogo di aggregazione trasversale più frequentato da cinquant’anni e sono ancora un luogo sociale vivo, che ogni settimana unisce nello stesso posto migliaia di persone. Però resto convinto che lo spirito degli ultras di una volta si possa davvero ritrovare nei campi di terza categoria, dove tifosi stanchi del calcio dei miliardari si fanno la propria squadra e dove gli ultras possono fare gli ultras. Accendere fumogeni e bere birra».

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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