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Trentacinque secondi ancora: intervista a Lorenzo Iervolino

«Mostrano sempre l’immagine, ma non raccontano mai la storia».
Questa è la didascalia definitiva che John Carlos ha usato per descrivere la famosa immagine sul podio dei 200 mt piani alle Olimpiadi di Messico ’68. Assieme a lui, Tommie Smith (primo classificato) e l’australiano Peter Norman (secondo classificato). A raccontare la storia che sta dietro all’istantanea scattata dalla Nikon di John Dominis il 16 ottobre 1968, oggi c’è Trentacinque secondi ancora di Lorenzo Iervolino (66thand2nd, 2017), libro che racconta la vita, il sacrificio e la gloria di John Carlos e Tommie Smith.

Dopo Socrates, come hai deciso di scrivere Trentacinque secondi ancora?
Bella domanda, ci penso ancora adesso! A parte gli scherzi, dopo Un giorno triste così felice non ero così sicuro di riaffrontare il tema sportivo. Alla fine mi sono convinto e ho ceduto alla corte che l’immagine di John Carlos e Tommie Smith con i pugni alzati stava avanzando verso di me. L’obiettivo è stato da subito quello di esplorare un’istantanea famosa di sport, che però nascondeva una lunga serie di interrogativi. Un storia enorme, in cui è stato importante mettere bene assieme i pezzi e agganciarli al contesto.

Nella prima parte del libro ricrei il quadro storico-politico degli Stati Uniti durante gli anni ‘60. Harry Edwards, l’ideatore del Progetto Olimpico per i diritti umani, è una figura centrale nella protesta di Tommie e John: fu il primo ad intuire che il ruolo degli afroamericani nello sport fosse l’unico a disposizione per far ascoltare il proprio dissenso. Sport e politica: cosa pensi del rapporto tra questi due ambiti? e la narrativa sportiva può sobbarcarsi il rischio di raccontarne i legami?
Rispondendo brevemente, direi di sì. Deve assumersi questo rischio. Anche per il fatto che lo sport non è solo sport, ma anche politica ed economia. Ho incontrato diversi atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi di Messico ’68 e riguardo al Black Power Salute la posizione è ambivalente: c’è chi sostiene che quello non fosse il contesto adatto e chi, invece, ha ribadito come gli sportivi non possano isolarsi dalla realtà e ignorare ciò che accade fuori dagli stadi. A parte questo, gli Stati Uniti a quei giochi olimpici issarono la bandiera a mezz’asta per i fatti di Praga accaduti pochi mesi prima. Resta quindi da capire: quando lo scenario sportivo è adatto per fare politica e quando invece non lo è?

La possibilità di fare qualcosa per la tua gente capita una volta soltanto nella vita e se te la lasci scappare non ne avrai mai un altra”. Questa è una citazione di Tommie Smith tratta dal tuo libro. Secondo te, nel momento in cui vengono immortalati coi pugni alzati, avevano entrambi davvero la consapevolezza di cosa li avrebbe attesi da lì a poco?
Sì, erano consapevoli. Anche se non del tutto. Nel libro c’è una foto in cui Smith, Carlos e Norman vengono immortalati durante l’uscita dagli spogliatoi prima del podio: l’australiano era sorridente e scherzava, mentre i due americani avevano i volti tirati come se stessero accingendosi ad affrontare un plotone d’esecuzione. Sì, erano consapevoli, anche se non pensavano che il loro gesto avrebbe potuto rovinare la vita anche ai propri famigliari.
Accettarono il rischio.

Secondo te l’immagine scattata dalla Nikon di John Dominis ha aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica sui motivi della protesta oppure la sua continua ripetizione ne ha in qualche modo depotenziato il messaggio? Riformulo meglio la domanda: è possibile che il riprodursi continuo della fotografia abbia come ingabbiato la protesta, sottraendole il suo potere eversivo? E che se da un lato l’ha resa più accettabile per establishment e opinione pubblica, dall’altro abbia condannato la storia dei due protagonisti al silenzio?
Questo è un punto centrale. E’ difficile dire quanto la fotografia di John Dominis abbia agito in un senso o nell’altro. Indubbiamente ha aiutato a creare un’icona, un’immagine simbolica da contrapporre all’establishment economico-politico. La forza delle immagini, però, ha purtroppo un prezzo: ci sarebbe stato da dire chi erano Smith e Carlos, da dove venivano, come erano cresciuti, chi era Peter Norman e via dicendo. Nell’immagine, invece, i protagonisti smettono di essere corporeità e diventano poster. I due aspetti convivono, in modo quasi paradossale direi. Accanto alla moltiplicazione delle foto, c’è poi la storia delle persone: aspetto che permette di avere uno sguardo quasi tridimensionale alla vicenda.

In una società – quella americana (e non solo) – che riconosceva dignità agli atleti afroamericani esclusivamente per il numero sul pettorale e per la possibilità di arricchire il medagliere, Carlos e Smith utilizzarono sul podio olimpico l’unico strumento a loro disposizione per urlare al mondo intero la battaglia per i diritti umani: il proprio corpo. Secondo te è azzardato dire che il loro fu quasi un gesto di teatro fisico?
Nella protesta di Tommie Smith e John Carlos ci sono tutte le caratteristiche della teatralità, intesa come gesto fisico. Il podio era un palcoscenico, con un pubblico sulle gradinate in attesa di una scena. I due atleti americani riuscirono a comunicare tramite il corpo, senza alcuna parola e a suscitare una reazione dagli spalti. C’era consapevolezza e gestualità.

Ed infine: qual è l’eredità che lascia oggi il Black Power Salute negli U.S.A?
In occasione di una gara valida per la NFL, Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers, è rimasto inginocchiato durante l’inno americano per esprimere il suo disappunto, successivamente spiegato ai media con queste parole: «Non posso dimostrarmi orgoglioso di un paese che opprime le persone di colore. E per me questo è più importante del football e sarebbe egoista da parte mia voltare lo sguardo dall’altra parte. Ci sono corpi lasciati a terra per le strade e persone stipendiate cha la passano liscia perfino in caso di omicidio».
La protesta del ’68 è ancora viva. E parla con gran forza.

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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