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La vita è un pallone rotondo

Questa intervista, purtroppo, non è mai avvenuta.
Nel 2011, infatti, Vladimir Dimitrijević è morto per le conseguenze di un incidente stradale. Figlio di un orologiaio imprigionato e perseguitato dal regime jugoslavo di Tito, nel 1954 si trasferì in Svizzera. Qui riuscì a mantenersi grazie alla rendita di un lavoro in nero presso una fabbrica di orologi a Granges; poi, grazie all’ingaggio in una squadra di calcio locale, riuscì ad ottenere i documenti per rimanere in territorio elvetico e a lavorare come libraio a Neuchâtel e a Losanna, dove fonderà una propria casa editrice: l’Éditions L’Âge d’Homme. Il suo La vita è un pallone rotondo, edito da Adephi (2000), è un omaggio filosofico allo sport più seguito del pianeta, la riflessione dotta di un intellettuale che proprio nel calcio ha trovato una chiave interpretativa della vita. Conversare con Vladimir Dimitrijević sarebbe stata l’occasione per approcciare il futbol da una prospettiva inattuale, ma allo stesso tempo stimolante. Il tempo, purtroppo, ha reso impossibile un tale piacere, ma per fortuna la sua letteratura, a distanza di anni, ha ancora la forza di fornire risposte chiare e precise. Quello che segue, pertanto, è un dialogo immaginario, fatto di quesiti attuali e di risposte tratte direttamente dalle pagine de La vita è un pallone rotondo. Buona lettura.

Da 150 anni, più o meno, il calcio è vittoria e sconfitta, storia e arte, letteratura e musica, business e tifo. Segue l’evoluzione, il tempo, la società. Muove folle, denaro e sentimenti. Tutto qua o c’è dell’altro?
Intanto penso che il calcio non sia aristocrazia, ma nobiltà. Nobiltà di gamba. Vi è in esso un egualitarismo quasi cristiano: lo si può praticare con chiunque, in qualunque modo, in qualunque luogo. E’ gioia. E’ uno sport di squadra e le grandi squadre sono fatte di amici, di compagni di infanzia, di figli di una determinata epoca o di una classe sociale. In una squadra ognuno deve assolvere il proprio compito per la sopravvivenza di tutti, per segnare dei goal e evitare di incassarli.

Nel calcio moderno però le rose spesso vengono assemblate secondo logiche di profitto. Vera necessità o esigenza che risponde a precise richieste di intrattenimento?
Spesso i capitalisti acquistano i giocatori con dei metodi che non piacciono agli allenatori. L’allenatore può anche dire la sua: quel campione non mi serve, perchè il suo ruolo è già coperto, piuttosto ho bisogno di un buon giocatore in un’altra posizione. Ma al capitalista, per il quale si tratta di un investimento in termini di immagine, interessa acquistare solo fuoriclasse invece che assegnare i diversi ruoli ai giocatori adeguati. A forza di speculare sulle stelle del calcio, i banchieri e gli uomini d’affari finiranno per averla vinta su questo sport.

Il calcio a conti fatti è una grande rappresentazione. E la televisione uno dei tanti racconti possibili. Forse il più munifico, ma solo uno dei tanti.
Con la televisione l’informazione è incollata al momento in cui il fatto accade, in diretta. E’ una pseudo-partecipazione. Un tempo la notizia giungeva con il messaggero, era una lettera che qualcuno portava o a piedi o a cavallo. Poi sono stati scoperti mezzi di comunicazione più rapidi e alla fine, attraverso il telefono, la radio e la televisione, abbiamo raggiunto la simultaneità assoluta fra emissione e ricezione. Ci hanno portato via la ri-creazione, e per ciò stesso una parte della creazione. Il racconto è stato ucciso, sostituito da una fibrillazione di fatti salienti e rimarchevoli, ed è come se avessimo sostituito il cuore con il tracciato dell’elettrocardiogramma.

Senza personaggi però il racconto sarebbe impossibile. Chi è il giocatore?
In generale sono tutti veri giocatori quelli che da bambini hanno dato qualche calcio al pallone, sognando la squadra del cuore. In particolare, invece, il calciatore non lo si può inventare, né simulare, il suo è qualcosa di innato, un dono, un tocco, inimitabile, una cosa che non si impara. Non esiste un giocatore ideale, perché tutti i calciatori eccezionali trasformano un difetto in una qualità sublime. Per me un buon giocatore è, come Don Chisciotte, di aspetto bizzarro. E’ goffo, è filiforme, eppure è un eccellente giocatore, e lui e Sancho si completano a vicenda.

Qualche esempio?
Maradona, che con il suo baricentro basso era difficile da sbilanciare; ma anche Johann Cruyff o Baggio, che davano una certa sensazione di fragilità; Romario che sapeva rendere il pallone invisibile grazie all’intreccio tessuto dai suoi piedi; Marco Van Basten, che con le sue gambe lunghe rubava palla al terzino che si apprestava a rinviare; Eric Cantona, il cui portamento ricordava quei cavalli da circo obbligati a camminare sulle zampe posteriori; Eusebio, che accarezzava il terreno di gioco; ed infine Gerd Muller, che sembrava sempre sul punto di incartarsi, ma era così che sorprendeva il difensore. Ognuno di questi maestri ha conferito al gioco un tocco nuovo.

Il primo ricordo del pallone rotondo?
Era il 1939, avevo 5 anni. Mio padre era un grande appassionato di calcio e a Skoplje aveva un negozio che era punto di ritrovo di appassionati e di alcuni giocatori della squadra locale. Un giorno li vidi in uno stato di febbrile eccitazione, pronti a partire per Belgrado per assistere alla partita Iugoslavia-Inghilterra. Tornarono trasfigurati, come sulle nuvole, tra la polvere grigia e il cielo azzurro: la Iugoslava aveva vinto 2-1.

Una squadra da ricordare?
Sicuramente l’Ungheria degli anni ’50: i giocatori si conoscevano come fratelli. Erano nati nello stesso posto, nella stessa via. Praticavano il tipico gioco dell’Europa Centrale con prodezze tecniche a non finire. Ma anche l’Olanda, con tutti i suoi grandi giocatori e con quel genio che era Cruyff.

Pelè o Maradona?
Nel calcio, come in letteratura, preferisco quelli che hanno mantenuto l’impertinenza dei bambini. E’ un gran bene per la società che ci siano degli adulti, ma io preferisco Maradona. Un mio amico mi dice: è una canaglia. Sì, e proprio per questo mi piace. Ha provato tutto, come un bambino che dà qualche tirata a un mozzicone dimenticato acceso. Ha pagato di persona e le sue magie gli sono costate care. Maradona entra a far parte della Nazionale, e in pochi anni l’Argentina raggiunge i vertici. Va a Napoli e il club partenopeo diventa campione d’Italia e lui un semidio. Mettetela dove volete, gente così, su un campo di calcio, su un prato, in un vicolo, su una spiaggia, e nel giro di dieci minuti si formano capannelli di persone. Intendiamoci: Pelè, Platini, Beckenbauer sono grandi giocatori. Ma per il popolo non sono dei signori. Quando don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui.

Assieme all’attaccante, quello del portiere è uno dei ruoli chiave del calcio. Che mistero nasconde?
Ci sono portieri sfortunati e portieri salvati ripetutamente dai pali e dalla traversa. Da cosa dipende? Alcuni portieri, ad esempio, hanno una grande presenza tra i pali e il dono di possedere un’ampiezza di movimenti straordinaria. In questi casi all’attaccante, per riuscire a segnare, non resta che mirare cinque centimetri più a sinistra o più a destra dell’imponente sagoma. Cinque centimetri, quanto basta per mancare la porta. Poi ci sono portieri che sono sempre ben piazzati. Zoff, ad esempio, si trovava sempre sulla traiettoria della palla, e non si è dovuto tuffare più di tre volte nel corso della sua carriera. Non ne aveva bisogno. E se il portiere è ben piazzato lo specchio della porta non misura più sette metri, ma quattro, e con due metri per parte è più facile catturare il pallone. L’attaccante tira addosso al portiere o sbaglia il gol, o addirittura non si azzarda a tirare.

E per concludere: quale futuro per il calcio?
Capire come il denaro trasformerà questo magico sport in un divertimento da Juke-box resta una questione aperta. Forse presto ci si accontenterà di valutare in dollari il peso delle squadre e di proclamare vincitrice la più pesante delle due. Questo ci risparmierà novanta minuti di noia. Oppure, al posto dell’interminabile partita, si potrà far tirare qualche calcio di punizione o di rigore, alternandolo ad alcuni giri di campo cangianti di cosce e majorette.

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Chi sono? cosa faccio? dove vado? A tutte queste domande rispondo con un bel silenzio. Diciamo che lo psicodramma è il mio terreno preferito, altrimenti che genoano sarei?! Mi piacciono i piani ben riusciti ed è per questo che opero sempre in direzione contraria. Insomma ho una predilezione per gli sconfitti, i secondi e quelli che si sbattono. Per farla breve, per i gregari. Ahimè sono un romantico e quando vinco mi sento a disagio. Per questo sono sempre all’opposizione. Ci sono 4 cose che mi mandano in visibilio: la frazione a farfalla di Pankratov, l’eleganza di uno stop di petto, il culo di Franziska van Almsick e i tackle di Paul Ince. Per il resto bevo birra.

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