#NotYourMascot

Domenica 2 novembre, oltre 5.000 nativi americani e loro sostenitori hanno marciato in corteo verso lo stadio di Minneapolis, dove stava per iniziare una partita di football americano. I cartelli, gli striscioni e i cori portavano un messaggio chiaro: “non siamo la vostra mascotte”, in riferimento al nome della squadra di Washington DC, i Redskins (ovvero pellerossa), in campo quel giorno contro Minnesota. La manifestazione, la più grande mai organizzata, faceva e fa parte della lotta che va avanti da decenni per convincere la squadra di Washington a cambiare mascotte. Già l’idea che qualcuno, in particolare una squadra sportiva il cui valore è stimato in 1,6 miliardi di dollari, utilizzi a scopo di lucro una caricatura che violenta l’identità di popoli quasi del tutto cancellati, insieme alle loro culture, lingue, credi e tradizioni, sconcerta e non poco. Altresì conoscere l’origine di quel sostantivo, noto ormai su tutti i dizionari anglofoni come un’ingiuria razzista, mette i brividi.

Nel corso della colonizzazione del Nord America e nella guerra per sterminare i popoli indigeni, i governi e le autorità offrivano taglie sulle loro teste, stabilendo prezzi differenziati per uomini, donne e bambini. Per incassare i soldi, i bounty hunter, che si guadagnavano da vivere con questa macabra politica, dovevano dimostrare di aver ucciso i nativi. E lo facevano riportando uno scalpo, ovvero il cuoio capelluto, oppure uno strappo di pelle. Questa caricatura, piena di violenza, viene costantemente rinfacciata ai nativi americani nel gigante logo sul campo dello stadio di Washington, su divise e caschi dei giocatori, su magliette e sciarpe dei tifosi, in cori e canzoni della squadra e nelle cronache delle partite.

Le proteste si sono fatte sentire anche su Internet. Durante la partita, sono stati 24 mila i tweet con hashtag #NotYourMascot, #NoHonorInRacism e #ChangeTheName. Un video pubblicato a gennaio dal National Congress of American Indians è stato visualizzato oltre 3 milioni di volte. Nel video le parole che i nativi americani usano per descrivere se stessi sono: fieri, dimenticati, madri, Sioux, medici, Seminole, indomabili. Il cortometraggio si conclude con il casco della squadra di Washington, senza mai pronunciare la parola in riferimento alla mascotte.

Grazie alla lotta, si è sviluppata una maggiore consapevolezza sulla natura razzista e offensiva della mascotte di Washington. I giornalisti sportivi si rifiutano di scrivere o dire il nome della squadra. Il relatore speciale dell’ONU per i diritti dei popoli indigeni ha invitato la squadra a cambiare nome. Anche il Presidente Obama ha affermato che il nome andrebbe cambiato e l’anno scorso, 50 senatori, la metà del senato statunitense, ha inviato una lettera al presidente della Lega Nazionale del Football per chiedere il suo sostegno e un impegno attivo della NFL per far cambiare il nome. Una lettera che così si può riassumere: “il razzismo non ha luogo nello sport”.
In molti fanno ormai il confronto con il caso recente dell’NBA, che ha reagito con una rapidissima azione nei confronti del proprietario dei Los Angeles Clippers: a seguito dei suoi commenti razzisti contro gli afroamericani, Donald Sterling è stato squalificato a vita dall’NBA e dovrà pagare una multa di 2,5 milioni di dollari.

Da parte della squadra solo alcune goffe contromosse. A marzo l’annuncio della Washington R*dskins Original Americans Foundation, riuscendo ad inserire nel nome una parola offensiva proprio nei confronti di chi la fondazione dovrebbe aiutare. A luglio il lancio di un nuovo sito web, R*dskins Facts, che pretende di esporre i fatti sul nome della squadra, argomenti che sono stati ampiamente smentiti dalle organizzazioni dei nativi americani. Inoltre, mentre il sito veniva presentato come un movimento dal basso a sostegno della squadra, in realtà è stato la creazione di un agenzia di pubbliche relazioni e “crisis management”.

La lotta procede anche presso le istituzioni e nei tribunali. A giugno, l’Autorità per i brevetti e i marchi ha revocato la registrazione del marchio della squadra di Washington in seguito alla denuncia di cinque nativi americani presentata nel 2006: un’importante vittoria per il movimento, in cui l’Autorità ha concluso che il nome e il logo della squadra sono spregiativi nei confronti dei nativi americani.
La reazione di Washington, però, ha lasciato sbalorditi. Invece che appellarsi presso l’Autorità per i marchi, ha fatto causa contro i cinque nativi che, a loro volta, hanno fatto ricorso presso una corte federale. Mentre la questione è bloccata nei tribunali, la registrazione del marchio rimane in vigore. Se venisse confermata la decisione dell’Autorità, non solo la squadra perderebbe decine di milioni di dollari all’anno per mancati introiti dalla vendita del merchandising non più protetto dal marchio, ma si potrebbe anche creare un altro canale di pressione per il cambio del nome.
Negli Stati Uniti le mascotte delle squadre assumono un forte valore economico: tutte le squadre della NFL, eccetto i Cowboys di Dallas, mettono insieme i guadagni dal merchandising per poi dividerli equamente. E la squadra di Washington ne porta una buona parte. Meno incassi per Washington, quindi, significherebbe meno incassi per tutti e potrebbe anche attirare l’attenzione di altri proprietari sulla questione della mascotte.

Forte del successo di Minneapolis, si stanno già organizzando le prossime proteste: il 23 novembre a Santa Clara in California durante la partita tra la squadra di Washington e i 49’s di San Francisco e il 28 dicembre proprio allo stadio di Washington.
Dan Snyder, proprietario della squadra, si è impuntato e ha dichiarato che non cambierà mai il nome del team. Anche il suo predecessore aveva fatto analoghe dichiarazioni: George Preston Marshall, infatti, proprietario di Washington dalla fondazione negli anni ’30 fino alla sua morte nel 1969, aveva affermato che non avrebbe mai assunto giocatori afroamericani. E nel 1962 era l’unica squadra della NFL a mantenere questa politica razzista. Dopo l’intervento di Kennedy, però, che minacciò di vietare l’uso del nuovo stadio su terre demaniali, Marshall cedette. E lo stesso, prima o poi, farà anche Snyder. La questione è solo di tempo.

Nel frattempo anche in Italia sarebbe opportuno prendere coscienza della natura razzista del termine e smettere di usarla.

 Sitografia:

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Stephanie Westbrook

Stephanie Westbrook

Human rights activist. Part time mountain woman. Both often lead me to the path of most resistance.
Stephanie Westbrook

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7 commenti

  1. Federica

    Parlavo proprio di questo l’altro sera con una mia amica americana, che tra l’altro mi raccontava come alcune città piano piano stiano sostituendo Columbus Day con Indigenous Pleople’s Day. Quest’anno Seattle e Minneapolis hanno cambiato le celebrazioni.

  2. Anna

    Vivo da 13 anni negli USA. Anzitutto, i Nativi Americani non sono “quasi del tutto cancellati”. Sono presenti, ma la cultura media ‘bianca’ non si vuole ricordare il passato. E’ una malattia tipica americana, ql di dimenticare la violenza inaudita perpetrata nei confronti di una cultura considerata “inferiore’, allo scopo di portare via terre che non erano nostre, con trattati mai onorati.

    Il fatto che qs termine derogatorio e offensivo continui a essere usato nonostante le proteste, e’ sintomo di un’America profondamente razzista, dove chi non ha la pelle bianca rischia di venire ammazzato per strada ogni giorno, dalla polizia. Anche noi in Italia dovremmo riflettere su come trattiamo gli immigrati. Siamo tutti uguali.

  3. Jonny Dio

    Quanta ipocrisia! A quando una bella campagna per cancellare il cognome Negri in Italia, e sostituirlo con Bianchissimi? Se lo facciamo sembreremo meno razzisti, no? E fa niente se ci limitiamo a quello e poi non cambia niente come sempre; l’importante è fare delle grandi questioni su delle minchiate, così la facciata è salva, e della sostanza chissenefrega.

  4. Jonny Dio

    Razzismo? Ma lo sai da quanto tempo quelli si chiamano così? Da più di ottant’anni. Adesso arriva il primo che passa, dice: lo sai che c’è: è da ottant’anni che sbagli, ora il tuo nome lo decido io, che di anni ne ho anche di meno, e tu, o ti adegui o sei razzista! A me sembra che da quando hanno iniziato a chiamare afroamericani i negri statunitensi, di sostanziale non sia cambiato nulla, è solo una manovra di facciata, e, in quanto tale, intrinsecamente e profondamente ipocrita.
    Se volete lavarvi la coscienza così, a basso costo, per me va benissimo, ma riconosciamo almeno le cose per quello che sono.
    Oltretutto, non ci trovo niente di offensivo in “pellerossa”, non si sono sempre chiamati così? Anche negro non nasce come termine offensivo nella lingua italiana, una volta si pronunciava normalmente nei film e nel linguaggio corrente, lo stanno facendo diventare per scimmiottare gli americani e il loro “politically correct” che è la massima espressione dell’ipocrisia generale, non li chiamano più negri così stanno buoni e poi continuano a cagargli in faccia come hanno sempre fatto. Aggiungo anche che nigger in slang americano è effettivamente sempre stato un dispregiativo, ma la sua traduzione non è negro ma negraccio, o peggio, mentre la traduzione di negro è colored.

    • pagina2cento.it

      Se hai letto l’articolo, avrai notato che non è proprio il “primo che passa” a chiedere il cambiamento del nome. Esiste un movimento di opinione piuttosto ampio che comprende il Senato degli Stati Uniti, compreso il Presidente Obama. Ribadiamo: l’ipocrisia è fare dei distinguo sulla discriminazione. Anche questo è razzismo.

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