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Undici Metri

“Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio e arrivasse un pallone infangato, lo stopperei di petto senza pensarci”
Diego Armando Maradona

Inspira. Goditi il momento. Corri. Tira. Spera. Respira. Chi dice che il calcio è solo uno sport, semplicemente non conosce il calcio. Non lo ha mai guardato tenendo il cuore in mano, sgranandolo come fosse un rosario mentre rivolge preghiere ad un Dio che raramente ascolta, e mai tifa per la stessa squadra; nemmeno quando è quella che vince. Non ha mai sperato tanto forte da lacrimare, e soprattutto non lo ha mai giocato nel solo posto dove la selezione è crudele che neppure nella tana delle tigri, e dove il giudizio per un errore non ammette repliche ed è spietato: la strada. Il calcio, prima di diventare una liturgia di massa, prima ancora di essere un innamoramento folle, è qualcosa di ancestrale, di antico, un rito fatto di gesti che non hanno bisogno di alcuna scuola perché vengano trasmessi; un bambino vede un pallone e lo calcia. E poi esulta. Ride. Come il primo respiro, non sai come si faccia, ma lo conosci, e lo fai. Senza non vivresti.

 

Roberto ha già piazzato il pallone sul dischetto quando il tempo pare fermarsi, come se tutta sua vita fosse concentrata in quegli undici metri di silenzio e respiri trattenuti.
L’insieme dei gesti che fa nel mettere il pallone al centro del disco di gesso bianco lo celebra come un prete sull’altare. Gesti antichi. Pallone tra le mani, che lo palpano come si fa quando si sceglie un melone; se ne invoca la fedeltà: «non mi tradire», bisbiglia. Segue l’inchino, ovvero il genuflettersi tenendo le gambe dritte. È il saluto al portiere che risponde con un balletto lungo la linea di porta con le braccia larghe.
Le braccia tese accompagnano il pallone e lo appoggiano al terreno. Un uovo riposto nel suo nido. Sollevandosi, inspira come volesse, con il fiato, tenere al suo posto anche l’anima. E il tempo, semplicemente, smette di scorrere.
Apre gli occhi ed è su un campo di cemento. Enorme. Roberto ha quattro anni e gioca con suo padre. È un campo sopra Sampierdarena, lo chiamano Il Belvedere che è come dire l’Azteca, l’Anfield Road, ed è il loro campo. Ci vanno ogni volta che possono. Lui è piccolissimo e suo papà è un gigante. Ed è fortissimo. Non è così, è ovvio, ma questo non lo sa ancora. È suo padre, ed è il migliore in quello che fa, qualunque cosa faccia. Quando suo papà parla di calcio racconta di gesta eroiche, di un giocatore argentino che nonostante fosse piccolo, più piccolo dei suoi amici, è diventato un gigante sul campo.
«Come Saetta McQueen?»
«Come lui, ma Messi ha vinto 5 Piston Cup!»
Quando parla di partite, invece, parla spesso della sola che lo abbia fatto soffrire davvero, ma che è stata anche la più bella giocata dalla sua squadra.
Il campo è duro, ma ha righe incerte disegnate per terra e le reti delle porte si gonfiano quando il pallone ci entra. C’è anche una signora che si affaccia e saluta. È come uno stadio. Porte, righe, pubblico. Al calcio serve poco per manifestarsi. Roberto è felice e urla ogni volta che fa gol mettendo pollice e indice davanti agli occhi come ha visto fare in TV. Prima di andare il papà concede ancora l’ultimo gioco: i rigori. Il cerchio del rigore è un pallino rosso e la palla non vuole starci ferma neppure a pregarla. La prende e la poggia con cura. Lo fa per la prima volta.
«Ti prego, non tradirmi», sussurra nella lingua dei bambini.
Il suo papà è in porta che fa lo scemo, e lui inspira, e prende la rincorsa.


«
Facciamo le squadre!»
Ad urlare è Ivan, bambino di quarta che pare uno delle medie. Le regole nel campo di Piazza Galileo Ferraris non ammettono pietà. Si scelgono i capitani in base al carisma, che tradotto nei termini della piazza significa quelli più bravi per insindacabile giudizio dei primi due che urlano: «CAPITANO!». Loro solo i selezionatori, i CT che scelgono, uno alla volta, la propria squadra. La scelta è fatta in base alle fasce di merito, costruite attraverso torelli e partite precedenti. I primi scelti sono quelli che fanno i gol, le seconde fasce sono gli amici del cuore, quelli che non puoi tradire, seguono i due preposti alla porta, quelli che quando uno urla: «ULTIMO IN PORTA», fanno l’impavido passo avanti per diventare ultima difesa.

“Il portiere su e giù cammina come sentinella.
Il pericolo lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia”.

Chiudono la fila quelli Grammi, le pippe, quelli che non mandi via perché servono per fare numero. Essere tra gli ultimi due è una condanna senza perdono dalla quale può affrancarti solo una prestazione epica. Se poi sei l’ultimo dei due, devi fare gol come Maradona contro l’Argentina, due volte, per avere redenzione e scalare le gerarchie della strada.
«Paolo con me».
«Io prendo Luca».
«Marco da Me».
«Lorenzo».
«Matteo».
«Pietro».
«Beppe».
«Stefano».
«…e…dai, Francesco…ma tu vai in porta, OK».
«NO, in porta vado io». “Il portiere su e giù cammina come sentinella…”

Il campo della piazza è di lunghezza variabile, certo, sarebbe bello fosse almeno chiuso in un rettangolo ma anche un trapezio andrebbe bene. Alberi e panchine fanno parte dell’arredo, le porte sono delimitate da due zaini e la loro altezza è variabile, definita dal portiere di turno che fa un salto a braccia alzate e dice: «fino a qua!». Con la sicurezza di Romolo che traccia il confine della Città eterna con il suo aratro.
Si inizia subito dopo il battesimo delle squadre.
«Noi siamo la Juventus».
«Ma no, la Juventus è forte…allora siamo il Genoa».
«Allora noi la Samp».
«Derby».

Si gioca e la strada permette tutto, perché comanda chi urla più forte, che poi a comandare davvero è il pallone, altare itinerante attorno a cui ci sono sempre un numero imprecisato di gambe e piedi che colpiscono caviglie, ginocchia e – qualche volta – proprio il pallone. La partita non ha una durata definitiva, ma un finale certo: il triplice richiamo della mamma che mette fine ai giochi.
«Easpettamamma! Siamo pari, facciamo i rigori».
Dalla linea di porta si contano dieci passi chiusi da un salto a piedi uniti in avanti.
«Si batte da qua».
A Roberto tocca l’ultimo.
Poggia la palla.
Si inchina mentre guarda il portiere che risponde con un dito nel naso.
Inspira.

 

È un ragazzo. E sta giocando allo stadio. Sotto la Sud o quasi. Insieme ai suoi compagni di classe da qualche settimana hanno deciso di occupare i sabato pomeriggio all’ombra dello stadio, tra l’ingresso della gradinata sud ed un autolavaggio. In settimana si allena tre volte e la domenica gioca, ma quello non è calcio. Sono gli amici. Sono sei. Assieme a Roberto ci sono Paolo, Beppe, Stefano, Luca e Matteo. Quello spazio sembra costruito apposta per giocare tornei senza fine di Americane.Un campo scavato tra ferro e cemento. Un tesoro esclusivo solo per gli iniziati, quelli che usano il calcio per declinare ogni aspetto della vita.
«Sei stato sulla torre di Pisa? E si vedeva lo stadio?»
«Ennò? Bellissimo».
L’Americana è la declinazione calcistica dell’uno contro uno del basket. La sfida che piace tanto a Spike Lee e che prende corpo quando si usa un solo canestro. Due squadre. Una porta, un portiere. Lo spazio che si apre sull’ingresso ai distinti sembra avere tutte le caratteristiche perché una porta sia regolamentare. Larga ma non troppo, confini definiti e profondità. Non esiste il gol senza profondità. Quando manca bisogna ricorrere a metodi che evitino discussioni tipo Inghilterra-Germania del ’66.
«È gol», dicono gli inglesi.
«Non lo è», fanno eco i crucchi.
In questi casi sono risolutive le saracinesche. Prima ancora che qualunque tecnologia aprisse la strada alla soluzione del dubbio degno di Shakespeare – è gol o non è gol? Questo è il problema – il rumore della palla sulla lamiera fugava ogni dubbio. In mancanza di onomatopee ferrose, occorre profondità. Presente. Meglio se con una riga per terra tra un palo e l’altro. Presente. In quel campo fuori dallo stadio si sono giocate alcune delle sfide più epiche che la zona di Marassi abbia visto. Due contro due. Il quinto in porta. Al sesto tocca il fondamentale ruolo di pubblico. Chi vince resta. Chi perde cambia effettivi per la partita successiva. Sono amici, nessuna selezione, le squadre si fanno con un misto di miscela e bimbumbam. Si arriva ai cinque, ma sul quattro a quattro tie break o rigori a seconda del momento. Quei tornei iniziavano alle due del pomeriggio. Alle quattro era prevista pausa per the e merendine comprate dal supermercato di fronte e poi ancora a giocare, fino a quando il coprifuoco imposto dalle famiglie, regolato ovviamente su quello che lo aveva più tardi di tutti, non scattava. In inverno, verso le quattro, si accendono le luci, i riflettori, e complice la notte vanno in scena le partite più suggestive. La più bella tra le sfide si giocò un freddo pomeriggio di un gennaio. In porta Matteo. In campo Roberto e Paolo contro Stefano e Beppe. Luca costretto, sulle scale, ne approfitta per leggere un numero di Arthur King appena comprato da Stefano. Matteo rinvia dando le spalle al campo, alle cieca, lanciando la palla alle sue spalle il più lontano possibile. Paolo intercetta e vince il duello con Stefano portandosi sull’esterno. Lo chiamano Bomber perché è il più bravo. Danza col pallone e con Roberto si intende a meraviglia. Non sono solo amici, sono fratelli. Roberto sa dove deve andare non appena vede Paolo liberarsi, così scatta e va al suo appuntamento col gol. Stefano è un mancino puro ed è veloce. È rapido e non avrebbe difficoltà nell’uno contro uno ma adora i tiri da lontano. Ogni volta che tira osserva la palla come un giocatore di golf che colpisce con un ferro 9 una palla che aspira al green. Che colpisca bene te ne accorgi perché la palla la vedi partire e arrivare. La sua traiettoria è affare da moviolisti. Si fa sera e nessuno cede seguendo una specie di ritmo in quarto quarti: vantaggio-pareggio-vantaggio-pareggio. Fino al quattro pari che permette di prendere fiato.

«È tardissimo! Patta?»
«Patta un cazzo, dai che chi perde paga un colpo stasera».
«Rigori?»
«Rigori».
«Rigori. Uno a testa però che devo tornare».

Il dischetto è un tombino che sembra messo apposta, a sette metri dalla porta e più o meno al centro. Possibile che la sezione aurea prevista dall’architetto Vittorio Gregotti prevedesse che quella struttura fosse un tempio per il calcio in ogni suo angolo? Stefano e Paolo hanno naturalmente realizzato i propri; elegante ed angolato Paolo, deciso e potente Stefano. Beppe opta per una dignitosa via di mezzo, ma Matteo non si fa scoraggiare dal fondo di pietra. Si tuffa ed intercetta esibendo come trofeo il pallone bloccato e i jeans feriti a morte. Tocca a Roberto che prende il pallone, lo poggia sul dischetto. E inspira.

 

Riapre gli occhi e il mondo è lì che lo guarda. Ha davanti gli undici metri che suo padre ha aspettato per una vita intera e la sensazione di aver vissuto lo stesso momento decine di volte, come se tutta la sua vita non fosse che un lungo cammino, lungo trent’anni, per arrivare in quel punto. In quel momento.

«Ragazzi. Non ho molto da dire. Dobbiamo essere orgogliosi per quello che abbiamo fatto, ma se davvero vogliamo fare la differenza resta l’ultimo centimetro, il più duro. Faccio appello a voi. Chi batte i rigori?»
«Io ci sto mister».
«Capitano, che fai?».
«Mi spiace, non me la sento».
«Io sì».
«Io anche».
«Io».
«L’ultimo lo batto io».

Si è lanciato come un tuffatore da un trampolino, ha paura, ma è anche l’emozione più bella che prova da quando ha cominciato a giocare e non rinuncerebbe mai a quella sensazione. Sente su di sè gli occhi carichi di speranza dei suoi tifosi e la stessa speranza, al contrario, degli altri. No. In realtà non sente quelli, le opposte ansie che si riversano sullo spazio che occupano lui ed il portiere si annullano a vicenda. Diverso invece lo sguardo che arriva dalla tribuna. Non è sguardo che spera, è sguardo che sa. Suo figlio ha quattro anni e quando possono giocano assieme in un campetto non troppo lontano da casa. Roberto ha segnato in partita, l’assist glielo ha fatto Paolo che continua a danzare sul pallone e che di Piston Cup ne ha già vinta una, ma adesso è diverso. È solo con tutta la sua vita in mano. Ed è bellissimo. Corre e vede in porta suo padre che si butta e fa passare il pallone. Tira e vede il suo amico in piazza che si tuffa e prende la palla. Tira e vede Matteo che sfiora la palla che sbatte sul palo prima di entrare. Chiude gli occhi e spera. Sente il boato di chi sperava e vince. Sente la disperazione di chi sperava e perde. Sente il solo grido che conti davvero, il grido di chi non sperava perché sapeva. Respira. E ride. E piange. E gode. Oggi Dio tifava per lui.

 Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con la mano, a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza- par trabocchi
nel campo: intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro- è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.

 La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.

Della festa – egli dice – anch’io son parte”.

di Francesco Cascione
credits image: Ivan Grozny Compasso

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