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Una maglia speciale

Forse nemmeno ricordo il giorno in cui mio padre cominciò ad insistere perché io venissi qui. E nemmeno ricordo il giorno in cui, esausto, dissi sì. Né, purtroppo, il motivo per cui lo feci. Sono al quinto giorno in Senegal, ne mancano tre e sarò finalmente sull’aereo che mi riporterà da mia mamma, a Genova, a casa mia, con la mia playstation ed il mio visore virtuale. Cosa ci faccio io, Michele, dodici anni, qui a Khombole, in Senegal? Come avrete intuito, i miei genitori, come quasi ormai tutti, sono separati e mio papà è medico volontario per un’associazione umanitaria. Vive quaggiù da tre anni, o forse quattro. E dire che aveva giurato che mi sarei divertito tantissimo. Qui non c’è niente, le strade sono polverose, non ci sono negozi, nel nostro albergo – se così posso chiamarlo – si vedono solo una decina di canali alla TV, tutti parlano una lingua incomprensibile ed un po’ di francese per farsi capire. Ora, ditemi voi come dovrei divertirmi io qui? Mi tocca dire: fortuna che avevo un sacco di compiti da fare! Con questa scusa sono rimasto chiuso nella nostra stanza per buona parte del tempo e così ho potuto ascoltare in pace il mio iPod, unica concessione tecnologica che ero riuscito a contrattare prima della partenza. Per il resto, niente iPhone, niente iPad, niente di niente. «Vedrai che ti basterà la magia dell’Africa», diceva mio padre. Ma dove? Se solo ricordassi il motivo per cui dissi sì. Maledizione a me!

Dicevo, sono al quinto giorno e mi sembra il caso di vedere un po’ se qui attorno si trova qualcosa di finalmente divertente da fare, anche se non nutro particolare speranza. Esco dall’albergo e mi incammino lungo la strada principale, disseminata di improvvisati bazar che vendono ogni genere di merce, dalla frutta alle biciclette, dalle spezie agli animali vivi, il tutto all’aria aperta e nella confusione più totale. Sembra tutto uguale ed allo stesso tempo diverso, fino a quando sul ciglio della strada, un’ampia distesa di terra delimitata da un muro di mattoni da un lato e dalla stessa strada dall’altro, noto un folto gruppo di ragazzini rincorrere qualcosa che assomiglia ad un pallone, in un vociare incomprensibile ed assordante. Io adoro il calcio, gioco nella squadra del mio quartiere e tifo per la squadra della mia città, ho due allenamenti alla settimana e la partita alla domenica, le scarpe da allenamento e quelle, bellissime, per la partita. Questi ragazzini, invece, giocano con un pallone mezzo sgonfio, sono quasi tutti scalzi e non hanno divise per poter distinguere le squadre. Osservo la scena un poco defilato e capisco che quei grandi alberi che costeggiano la strada sono le porte e che non esistono portieri, chi si trova lì nei pressi degli alberi può parare i tiri indirizzati verso la propria porta. Mi pare uno strano modo di giocare a calcio, noioso e forse anche un poco stupido. Ma è la prima cosa interessante che vedo da quando sono qui e allora rimango a guardare. E loro cominciano a guardare me. Non capisco ciò che si dicono, tanto meno quello che urlano, ma ora ho come l’impressione che in qualche modo stiano parlando di me, che stiano cercando di attirare la mia attenzione. Continuo a cercare di capire come facciano a divertirsi, se esistano delle regole, chi sia quel ragazzino così mingherlino con la maglia del Real Madrid, l’unico ad avere qualcosa di simile ad una divisa da calcio, seppure sia scalzo come quasi tutti. Devo dire che gioca molto bene, è rapido e fantasioso, e noto che sul viso ha sempre stampato un sorriso enorme. Ogni tanto incrociamo lo sguardo. Vorrei giocare ma non mi sento per nulla a mio agio, perciò in un momento di particolare foga della partita mi allontano senza essere visto. Torno in albergo e trovo mio papà che è appena tornato dall’ospedale dove lavora; ceniamo e chiacchieriamo allegramente, per la prima volta da quando sono venuto a trovarlo. Quando mi addormento sogno di giocare a calcio con quei ragazzini, in quell’improvvisato campo al bordo della strada. E così stamattina, appena mi sveglio, il primo pensiero va a loro ed alla loro felicità nel rincorrere il pallone. Finiti gli ultimi compiti mi precipito nel posto dove sono stato il giorno prima, e sono ancora lì, con gli stessi vestiti addosso e lo stesso entusiasmo incontenibile. Mi fanno un cenno di saluto, che ricambio, ma nessuno sembra invitarmi a giocare, e così continuo a guardarli: capisco immediatamente che non esistono vere e proprie squadre, non ci sono regole, non esiste rimessa laterale né rinvio dal fondo, serve solo correre e fare gol. Desidero tanto unirmi alla partita ora. Maledetta timidezza.

Quando la palla calciata in malo modo da quello che sembra essere il più grande di tutti arriva nei miei pressi non so cosa fare: guardo la palla, davvero malconcia, e guardo loro, guardo loro e guardo la palla, divento completamente rosso in viso, le gocce di sudore cadono velocemente dalla mia fronte. Sono attimi interminabili, rimango immobile per un tempo che non so definire. Sembra tutto fermo, io, loro, gli alberi, le auto sulla strada, la polvere che prima produceva vortici impazziti al primo soffio di vento. All’improvviso mi trovo davanti il ragazzino con la maglia del Real, con quel suo sorriso bianco e sterminato. Mi porge la mano e mi dice: «Mbaye». Non so come, non so perché, ma rispondo: «Michele». E senza nemmeno accorgermene sono su quel campo di terra a rincorrere quel pallone malandato. Sto giocando a calcio. Tutti i timori sono svaniti, tutta la noia accumulata sembra non essere mai esistita, corro e calcio, cado e mi rialzo, tiro e faccio goal, mi tuffo e paro, sfoggio anche quel poco di francese che ho imparato a scuola. Sono stramaledettamente felice.

La partita non finisce mai, si gioca sotto un sole intenso e senza pause. Mbaye mi passa spesso la palla ed io faccio altrettanto, in poco tempo formiamo una coppia formidabile. Quando la palla finisce su uno degli alberi che funge da palo, lui si arrampica agevolmente fino a raggiungerla sul ramo in cui si era incredibilmente incastrata e continuiamo a giocare, fino a che per me non è giunta l’ora di tornare in albergo. Saluto tutti i ragazzi, sono l’unico di carnagione bianca, ma ormai nessuno sembra farci più caso, io nemmeno.

La cena con mio papà fila via liscia, racconto con entusiasmo la mia giornata passata a giocare a calcio con i ragazzi del posto; scorgo in lui un sorriso compiaciuto, come di chi è orgoglioso del proprio figlio. Mi sveglio al mattino e realizzo immediatamente che oggi è l’ultimo giorno qui a Khombole, domani mattina ho l’aereo che fino a ieri sognavo di notte e che, invece, oggi, vorrei che partisse il più tardi possibile. Voglio tornare a giocare con i miei amici e, preparata la valigia con svogliata amarezza, mi dirigo a passi veloci al campo, come se ci fossimo dati appuntamento, anche se in realtà nessun appuntamento è stato dato. Eppure sono già tutti lì, come se mai se ne fossero andati. Mi salutano allegramente, ci battiamo dei cinque con i ragazzi della mia squadra e cominciamo a giocare forsennatamente. Ormai l’intesa con Mbaye è decisamente cementata e facciamo ancora più goal di ieri. In una delle rare pause di gioco, con il mio francese approssimativo, gli comunico che domani dovrò partire e lui sembra diventare malinconico, salvo poi riesplodere immediatamente nel suo disarmante sorriso. Giochiamo fino allo sfinimento, con azioni improbabili e spettacolari allo stesso tempo. Noto altri ragazzi che ci sanno davvero fare con il pallone tra i piedi ed altri che proprio non hanno idea di come si calci, ma è tutto  meravigliosamente spontaneo e divertente. Quando il pallone finisce oltre il muro di mattoni stupisco tutti andando a recuperarlo agevolmente. L’applauso che mi dedicano quando salto giù dal muro con la palla in mano mi mette i brividi. Deve essere questa la magia dell’Africa. Mio papà aveva ragione.
E’ quasi sera, saluto tutti uno ad uno e li ringrazio, non mi ero mai divertito così tanto a giocare a calcio. Dovevo venire fino a qui, su un campo di terra con un pallone sgonfio, per farlo. A cena con mio papà ringrazio anche lui, raccontandogli quali emozioni abbia provato in questi ultimi due giorni e quanto tempo abbia sprecato nella stanza dell’albergo ad ascoltare musica dall’iPod quando fuori c’era la vita. Papà è raggiante, come mai l’ho visto in vita mia, mi abbraccia forte e mi dice all’orecchio che mi vuole un bene infinito. Piangiamo insieme in silenzio, senza farci vedere l’uno dall’altro. La mattina mi accompagna in aeroporto, ci stringiamo in un abbraccio intenso ed interminabile, o almeno così a me pare. Ci salutiamo, entrambi consapevoli che si tratta di un arrivederci a molto presto. Prendo posto sull’aereo, allaccio la cintura e dal mio zaino tiro fuori il regalo di Mbaye. Già, perché ieri, finita la partita, mi ha chiamato in disparte e con il suo solito imparagonabile sorriso si è sfilato la maglia del Real Madrid e mi ha detto: «pour toi». Non ha voluto assolutamente nulla in cambio. Guardo la maglia ed in cuor mio ringrazio papà, Mbaye, tutti i ragazzi con cui ho giocato e l’inventore del calcio. L’aereo decolla.
E chi se ne frega se sopra il numero 7 c’è scritto ROLANDO.

di Fabrizio Fiore
credits image: Davide Baroni (Saint Louis, Senegal)

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