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I «Musi Neri» del Racing Club de Lens

Sang et Or sono i colori delle magliette indossate dai giocatori del Lens: il rosso del sangue versato dagli operai nelle miniere, il nero del carbone che diventa oro, data la sua importanza per la comunità.
Quando il calcio, da semplice sport, si trasforma in pratica e spettacolo di massa, è facile che stimoli la curiosità dello studioso, che ricerca nel fenomeno sportivo gli stessi tratti che danno vita a una comunità: l’immaginario sociale e l’appartenenza collettiva. È questa unione tra fenomeno sociale e fenomeno sportivo che ha portato Marion Fontaine, professoressa associata in Storia contemporanea presso l’Università di Avignone e studiosa di storia sociale, politica del calcio e spettacolo sportivo, a Lens, all’estremo nord della Francia. Una lunga ricerca illustrata nel volume Le Racing Club de Lens et les «Gueules noires». Essai d’histoire sociale (Parigi, Les Indes Savantes, 2010) che racconta la storia del Club come esempio di identificazione tra movimento operaio e società calcistica.
In occasione della presentazione del libro in Italia, abbiamo fatto qualche domanda all’autrice.

L’attività e la passione sportiva sono ormai pane quotidiano per antropologi, sociologi e storici. Cosa porta un ricercatore ad avvicinarsi allo sport e al calcio come materia di studio?

Per tanto tempo lo sport è stato considerato come un’attività troppo poco seria o troppo aneddotica per interessare le scienze sociali. Tuttavia la situazione è cambiata da una trentina d’anni e i vari aspetti dell’attività sportiva sono oramai soggetti di studio per tutte le scienze sociali. Questo interesse crescente può essere spiegato dal fatto che i ricercatori si sono accorti che lo sport, e la passione che suscita, costituiscono un importante fenomeno sociale, e ogni tanto un vero “fatto sociale totale” (M. Mauss). Ognuno poi ha diverse ragioni di interesse. Devo confessare che non sono appassionata di sport, ma quando ho visto, in particolare durante l’estate 1998 (anno in cui il Racing Club de Lens ha vinto il Campionato di Francia e la squadra nazionale francese ha vinto la Coppa del mondo di calcio), l’entusiasmo e gli investimenti identitari che accompagnavano certi avvenimenti sportivi, ho pensato che c’era un fenomeno particolare da studiare. Non ho più cambiato idea, e considero lo sport un meraviglioso osservatorio del mondo sociale.

Calcio e coscienza di classe: il caso del Racing Club de Lens.

Il Racing Club de Lens è un club di calcio nato in 1906 nel bacino minerario del dipartimento Nord della Francia. Nei primi tempi il club non rappresenta molto la classe operaia locale; i suoi fondatori, al contrario, fanno parte della piccola borghesia di Lens e il calcio, che è ancora un’attività poco diffusa, è sopratutto per loro un modo per stare insieme.
È soltanto a partire dagli anni 1930-1940 che la situazione è cambiata. Ci sono varie cause. Innanzitutto il calcio si è democratizzato e ha conquistato sempre più gli operai-minatori. Poi un certo numero di istituzioni si sono impadronite dal calcio. È il caso dei dirigenti della compagnia delle miniere di Lens, che hanno visto nel calcio (un po’ all’immagine della Fiat col calcio torinese nello stesso periodo) un nuovo veicolo pubblicitario, un modo anche per alimentare il consenso sociale e di radunare gli operai intorno all’azienda.
Ma l’interesse è stato forte anche da parte del movimento comunista e operaio. I comunisti, tramite i loro giornali, descrivevano il Racing Club di Lens come il “club dei minatori”, portatore di valori importanti per la comunità operaia (il coraggio, la solidarietà).
La passione suscitata dal Racing Club di Lens è stata quindi frutto di un movimento “dall’alto” ma anche “dal basso”, dalle aspirazioni degli operai stessi. Questo doppio movimento raggiunge il suo apice negli anni 1950. Nello stesso periodo si diceva che gli stadi del Nord dell’Inghilterra incarnavano « the Labour at Prayer » (Il Partito laburista in preghiera). Potremmo impiegare quasi la stessa formula per il Racing club di Lens, che non è lontano dal raffigurare “il Partito comunista in preghiera”, ossia la congiunzione di un’identità sociale, politica e locale, quella dei minatori del Nord della Francia.

Quando si sgretola questa dimensione? E’ possibile mantenere insieme aspetto locale e aspetto globale?

Questo aspetto inizia a sgretolarsi negli anni 1960-1970. Da una parte c’è l’inizio della crisi industriale e del lento processo di disgregazione della classe operaia, che colpisce in pieno una città come Lens. Dall’altra il mondo del calcio stesso inizia a subire profondi trasformazioni. Con la diffusione della televisione, l’aumento del numero di competizioni europee e internazionali, i club, che erano prima ancorati a un territorio (dal punto di vista del reclutamento dei giocatori o dalla composizione del pubblico), diventano, almeno i più importanti tra di loro, delle imprese di divertimento globale.
Questa globalizzazione, o questa “deterritorializzazione”, non ha tuttavia cancellato il ruolo dei club come portatori di un’identità locale; questa identità è stata profondamente riconfigurata, come dimostra il caso del Racing club di Lens. Prima era in qualche maniera l’identità sociale/locale esterna (quella dei minatori del Nord) che si rispecchiava nelle tribune. Poi, lo stadio ha assunto un ruolo molto più attivo, è diventato il catalizzatore, il luogo di fabbricazione di un’identità locale dilatata e reinventata (nel caso del Racing club di Lens, l’identità del popolo del Nord in opposizione a quello del Sud o di Parigi, e contemporaneamente l’identità della gente comune di fronte ai club considerati di elite, come quello di Parigi ad esempio). Insomma sembrava che più le identità diventavano incerte all’esterno dello stadio, più avevano bisogno di appoggiarsi su quello che si esprimeva all’interno dello stadio. Questa situazione rispecchia peraltro un paradosso più generale, ben conosciuto dagli esperti della mondializzazione. Essa produce uno “sbiadimento” dei territori insieme a un maggiore riferimento alle “comunità immaginate” e alle identità territoriali reinventate.

Com’è andata modificandosi la percezione del calcio da parte del pubblico nel corso del secolo? Come cambia l’identità collettiva?

Possiamo pensare che il calcio ha avuto un’importanza sempre maggiore dal secolo scorso. All’inizio era solo un passatempo per le classi medie, poi è diventato uno degli sport più popolari e anche più  globalizzato. Ormai i club di calcio, almeno i più importanti, possono avere dei tifosi in tutto il mondo, e certi giocatori sono diventati delle star mondiali.
Possiamo tuttavia chiederci fin dove può andare questo processo. In effetti, la globalizzazione del calcio si accompagna a una dismisura finanziaria sempre più forte (sono noti gli stipendi esorbitanti delle star del calcio). Inoltre, le misure legislative e commerciali volte a trasformare gli stadi in luoghi sicuri, sani e aperti al consumo di massa, tendono ad allontanarne le fasce sociali più popolari (il Regno unito ne è un esempio). Infine, l’ultra-globalizzazione dei club tende a trasformali in prodotti di marca, rendendone così sempre più nebulose le radici e l’identità territoriali. Questi sviluppi proseguiranno o condurranno, al contrario, a una nuova crisi del calcio e a delle contestazioni da parte dei gruppi di tifosi? È difficile al momento rispondere a una tale domanda, ma il calcio è da sempre un’attività soggetta a varie trasformazioni e possiamo pensare che il resto della sua storia non sia ancora stata scritta!

(traduzione di Nancy Murzilli)


Per approfondire
Marion Fontaine, I minatori alla conquista del calcio. Modernizzazione sportiva e costruzione identitaria nel mondo operaio francese («Memoria e Ricerca», 27/2008, pp. 63-77)

Per leggere l’intervista in lingua originale
Les “gueules noires” de Racing Club de Lens

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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