Zambia

Hopeball: Africa, pallone e sorrisi

Un’insolita fuga per un insolito obiettivo: lasciare Londra e un buon lavoro per approdare in Zambia. Il motivo? Insegnare a giocare a pallone. Su due piedi la storia ha dell’incredibile, soliti come siamo a considerare altri tipi di fuga, alla ricerca di un lavoro stimolante in una grande città europea piena di opportunità.
Eppure Gian Marco Duina, 21 anni milanese, un lavoro in una grande metropoli ce l’ha già, ma l’idea che questo gli avrebbe condizionato l’intera vita non lo entusiasmava per niente. Da qui la decisione di voltare pagina e la nascita del progetto Hopeball. Non si tratta di costruire pozzi, strade o dare sostegno medico: a volte basta un pallone per ridare gioia, divertimento e dignità a chi magari, non potendo permettersi un’istruzione e non trovando un lavoro, vede frenate le sue speranze. Così, grazie al sostegno della Onlus Whanau, che opera in Zambia, Gian Marco ha preso un aereo per raggiungere il villaggio di Monze, allestire un campo da calcio e dare inizio agli allenamenti.

Com’è nata l’idea? Cosa ti ha portato a fare il salto da Londra al centro Africa? E’ difficile far partire un progetto del genere?

Londra è stata la mia casa per un anno, avevo un ottimo lavoro ed ero ben sistemato, ma non mi sentivo soddisfatto, sentivo che dedicare tutto me stesso solo in funzione di un lavoro che mi permettesse di pagare l’affitto era una situazione svilente, mi sentivo sprecato.
Ho sempre voluto dedicare me stesso agli altri ma non ho mai saputo come fare. Londra mi ha messo con le spalle al muro e ho deciso che dovevo cambiare. Ho guardato dentro me stesso e ho messo assieme le cose che sapevo fare meglio: trasmettere passione e giocare al pallone, ecco come nasce Hopeball.
Gettarsi da solo in una esperienza del genere a 21 anni non è facile, ma non me ne sono mai pentito. L’impatto è molto difficile da sostenere a livello emotivo, è come ricevere uno schiaffo che ti fa girare la testa di 360 gradi, ma cominci a vedere le cose da una prospettiva completamente diversa. Qui le persone non vestono in giacca e cravatta, la maggior parte veste sempre la stessa maglietta che di solito è quella della squadra di calcio che tifano, nessuno va di fretta, i bambini sono gli unici che corrono, scalzi per venirmi a salutare quando passo per strada. Qui nessuno parla la mia lingua, ma quando sorrido tutti mi sorridono all’istante. Le giornate assumono un significato completamente diverso, ora non mi alzo più la mattina sperando che venga presto sera, ma vado a dormire impaziente di vivere un’altra giornata.

Quando parliamo di progetti in Africa siamo abituati ad altri tipi di progetto. Perché lo sport?

Quando si pensa ai problemi dell’Africa ci si concentra principalmente su nutrizione, sanità e istruzione considerandoli giustamente come i più urgenti da risolvere, ma non bisogna limitarsi a questi.
Noi siamo abituati a vivere lo sport come un semplice passatempo, ma qui lo sport è una scelta, un’alternativa ad una vita che altrimenti si presenterebbe priva di aspettative, un impegno che viene preso con serietà e responsabilità.
Per tutti quei ragazzi che non riescono ad accedere all’istruzione, e di conseguenza al mondo del lavoro, lo sport diventa alternativa alla strada, diventa motivo di orgoglio e soddisfazione personale, un momento di crescita in cui ognuno ha la possibilità di mostrare ciò che è in grado di fare, a prescindere dalla situazione economica o sociale. Molti dei ragazzi che alleno giungono da situazioni molto difficili. Alcuni, orfani di entrambi i genitori, vivono il contesto di squadra come una nuova casa. Lo sport ha ridato loro ciò che la vita ha provato a togliere, la possibilità di emergere e di farsi valere: lo sport è una via per riscattarsi e la squadra è un gruppo pronto a sostenersi in ogni difficoltà.

Sarà la lontananza, ma quando si parla di Africa, da qui sembra un unico continente indistinto. Che Africa hai trovato? È cambiata la percezione che avevi prima di partire?

Gianni Biondillo scrisse che “l’ Africa non esiste” e aveva pienamente ragione. Africa in sé non significa nulla, va considerata ogni piccola realtà che si rivela diversa da tutte le altre. Basti pensare che in Zambia vivono 72 diverse tribù ed ognuna di esse sottolinea la propria identità e differenza dalle altre. Come a noi pare normale identificare la parola “africano” a una persona di colore, senza porci minimamente il dubbio – di quale parte, nazione o addirittura provincia sia originario -non bisogna sorprenderci quando io vengo scambiato molto spesso per cinese! L’assurdità di scambiarmi per un asiatico è equivalente al definire africano una persona indistintamente che provenga da Zambia, Madagascar, Ghana o addirittura Egitto. Di fatto siamo abituati a pensare all’Africa per stereotipi. Anche, banalmente, il clima che riteniamo sempre caldo è un puro stereotipo: ogni nazione all’interno ha climi diversi e si alternano stagioni secche a stagioni piovose. La mia concezione è completamente cambiata, ho scoperto una realtà tutt’altro che povera, rispetto al modo in cui spesso ci viene presentata. Certo le difficoltà sono enormi, ma le persone portano con loro una ricchezza immensa, abbiamo tanto da imparare da questo continente.

A chi è rivolto il progetto?

I principali destinatari sono tutti coloro che tramite lo sport vivono un’esperienza educativa che altrimenti non potrebbero ricevere: bambini, ragazzi ed adulti a cui è stata negata la possibilità di ricevere un’educazione completa e di vivere e avere dignitose prospettive di vita. Tramite la competizione sportiva apprendono valori di rispetto e uguaglianza, imparando a crescere in un’ottica continua di sfida e di confronto aumentando la consapevolezza delle proprie capacità e di conseguenza la propria autostima.
Non dimentichiamoci però che tutti noi abbiamo bisogno di continuare a sperare tramite lo sport: Hopeball vuole anche dare voce a tutte quelle persone che ancora credono ai veri valori che lo sport può trasmettere, a tutti quelli che credono ancora al volto dello sport lontano dai riflettori e dagli assegni miliardari.

Come reagiscono i ragazzi?

I ragazzi sono dei carboni ardenti, appena ci si soffia sopra cominciano a bruciare, per adesso sono da solo a soffiare ed una piccola fiamma si è accesa ma spero che il mio lavoro possa portare una ventata di ossigeno perché nascerebbe davvero un focolare enorme. Per loro “squadra” significa “famiglia” e all’interno di essa hanno trovato la possibilità di riscattarsi da una vita difficile, e la loro battaglia sul campo la conducono sempre con sorriso ed entusiasmo. Loro sono un esempio per tutti.

Esistono altri “Hopeball” o progetti analoghi in altri paesi?

Per adesso Hopeball agisce solo qui in Zambia, è ancora in fase embrionale, ma l’intenzione è proprio quella di espandersi il più possibile ovunque ce ne sia bisogno. Ciononostante esistono davvero tanti altri progetti analoghi che utilizzano lo sport come strumento per far crescere i ragazzi in ogni angolo del pianeta: del resto lo sport non conosce limiti o frontiere.

So che potrai stare in Zambia fino a maggio. Dopo cosa speri di fare?

Dando vita a Hopeball ho fatto rotolare un pallone giù per una lunga discesa ed ora il pallone non si può più fermare. Sì, a maggio dovrò rientrare in Italia, ma non ho intenzione di fermare il progetto. La mia prima preoccupazione è assicurarmi che la squadra che ho formato qui in Zambia proceda nel campionato, per questo sto formando un ragazzo che mi sostituirà come allenatore e sono sempre alla ricerca di persone interessate a proseguire il progetto. Io personalmente sto cercando nuove realtà nelle quali portare un pizzico di speranza con il pallone e sono sicuro che ne troverò qualcun’altra: Hopeball non si ferma!

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Simone Tallone
“Come tutti i bambini, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo: durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese. Sono passati gli anni, e col tempo ho finito per assumere la mia identità: non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio».” – Ahimè, fossero parole mie! Eduardo Galeano parla per me!

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